Il processo contemporaneo di auratizzazione raramente è stato altrettanto manifesto, e così potente come nel caso di Liz Taylor. La trasformazione di questa donna già felina (La gatta sul tetto che scotta), il suo trasferimento dal territorio della realtà/identità individuale a quello dello Spettacolo/immagine pubblica, ha un che di portentoso.
Per Marilyn, la trasfigurazione è avvenuta, classicamente, attraverso la morte. Nel caso di Liz Taylor, invece, ha coinciso con la vita. (E vale la pena di aggiungere che, in entrambi i casi, il registratore umano di questo farsi si chiamava Andy Warhol).
La bruna, perciò, come la vita. Non è un caso che avesse scelto come migliore amico Michael Jackson, l’eterno bambino, il Peter Pan pop un po’ disadattato e un po’ inquietante, bla bla bla. Sembra di vederli, mamma e figlio nello star system: due alieni appena atterrati sul pianeta, che confabulano inventandosi un linguaggio tutto loro, inaccessibile ai comuni mortali. Le infinite tenerezze di una vita immortale e irsuta di peripezie, di accidenti e di infamie.
Questa donna ha del resto convissuto con la minaccia e con i lati oscuri per tutta la vita, e a quanto sembra ha vinto. Non si è fatta divorare dall’aura spettacolare: l’ha divorata. Ha vinto, nonostante le cicatrici, il botox, il photoshop, gli imbolsimenti e i tradimenti. Ha fagocitato otto matrimoni (e sette mariti) e una decina di esistenze normali. Ha sconfitto la vecchiaia – e non illudendosi di ingannare il tempo, ma affrontandola a viso aperto e senza paura.
Leggendari, letteralmente, i litigi con un altro scalmanato, Richard Burton: questi erano davvero giganti, viene da pensare. E ingigantiranno sempre più, nel futuro. Ubriachi e furiosi nella fase più sfavillante della “Hollywood sul Tevere”: la dolce vita aveva un senso perché erano loro a darglielo. Quelle albe veementi, in bianco e nero, i ceffoni scolpiti per sempre davanti e dentro agli alberghi lussuosi di via Veneto. Puntualmente annotati da paparazzi e geni italiani della creatività, che li incastonavano in splendidi affreschi narrativi fatti per catturare uno Zeitgeist irripetibile.
A noi fantasmi di oggi non rimangono che i ricordi consunti, frammenti di immagini senza senso e senza racconto. Storie di altri tempi, che probabilmente non torneranno mai più, o se torneranno sarà in vesti incomprensibili e diversissime, o torneranno sempre nella stessa identica maniera.
Liz Taylor è sempre stata adulta e fiera (nonostante avesse cominciato a recitare a dieci anni, o magari proprio per quello). Quasi minacciosa.
Liz Taylor era selvaggia – nel senso migliore e più vivo del termine, nel senso del West e della frontiera.
La bionda ha avuto sempre un che di spettrale – oppure siamo noi che le attribuiamo questo aspetto ex post. La bruna invece dava corpo ai sogni, e ricordava da vicino quella signorina Stapleton meravigliosamente descritta da Arthur Conan Doyle ne Il mastino dei Baskerville: “Lei era la più bruna di tutte le more che avevo mai visto […]: alta, sottile, elegante. L’espressione orgogliosa del viso e i lineamenti sottili, regolari erano ravvivati dalle labbra morbide, delicate […]. Così affascinante ed elegante, era una presenza assai strana in quel sentiero abbandonato e solitario”.
L’ultima diva della prima età dello Spettacolo ci lascia dunque in un periodo di enorme e misteriosa mutazione. Nel bel mezzo di un’epoca fatta di micro-celebrities, decomposizioni sociali e difficoltà a creare mitografie resistenti. Questo infatti è un tempo per spettri, in cui decisamente non c’è posto per dèi vivaci e frizzanti.
Christian Caliandro
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