Non è colpa delle archistar
L’attacco di Libeskind alle “archistar” - come se lui non lo fosse - sembra riaprire la questione della funzionalità dell’architettura, pilastro della modernità e che la postmodernità ha invece investito, o reinvestito, anche di altre qualità, che vanno oltre l’osservanza funzionalista.
In quanto forma d’arte dotata di simbologia, nel corso del tempo all’architettura è stata affidato il compito di creare edifici che rappresentassero epoche società: in Egitto come in Grecia, ancora oggi vediamo architetture-testimonianza non solo della storia di quei popoli, ma il senso di una società che possiamo raccontare attraverso l’architettura. Sappiamo, infatti, che piramidi e templi ci parlano delle civiltà succitate perché la religione è l’orizzonte entro cui si muove la società, così come la società dell’Impero Romano sarà rappresentata dall’architettura religiosa e civile. La caduta dell’Impero cede il passo al Medioevo, in cui domina la spiritualità della chiesa cristiana, che passa poi la mano al tempo della secolarizzazione, dove le forme della rappresentazione architettonica si sono confrontate nello stesso luogo: la piazza in cui si fronteggiano la chiesa e il palazzo, il vescovo e il principe. La rivoluzione industriale ha dato una ulteriore scossa e/o possibilità: l’architettura si sposta sulla fabbrica e sugli edifici annessi, fino a coinvolgere la progettazione di intere città. Pensiamo al complesso di Crespi d’Adda, dove l’architettura si è esercitata su fabbriche, abitazioni, scuole e altri servizi collegati, nel tentativo di realizzare l’utopia socialista modernista della città-fabbrica come luogo e strumento di emancipazione.
Queste architetture – come altri esperimenti sociali della modernità, ad esempio la Brasilia di Oscar Niemeyer – riflettevano il tempo dell’esaltazione del lavoro a cui la teoria marxista dava il suo orizzonte filosofico e ideologico, messo successivamente in crisi dalla società postindustriale o postmoderna. È il tempo dell’eterno presente circolare, in cui viviamo da una quarantina d’anni e dove l’architettura ha spostato ancora una volta i suoi interessi, per farsi strumento di rappresentazione simbolica: dalla società del lavoro a quella della cultura, dalla fatica e dal sudore al piacere e all’informazione. Perciò i luoghi della nuova progettazione architettonica sono diventati i musei, anche quello milanese – forse mancato – di Daniel Libeskind.
Ovviamente gli architetti non hanno smesso di progettare altre tipologie di edifici ma, come ha detto Mario Botta al Congresso Mondiale degli Amici dei Musei, tenutosi a Genova nel 2011: “Nel XX secolo si sono progettati più di cento musei e oggi ogni architetto vuole progettare un museo come voleva progettare una cattedrale nel Medioevo”. È soprattutto questo “nuovo luogo” ad alta spettacolarità che ha fatto sì che gli architetti venissero definiti archistar. Perché l’architettura ha spostato i suoi interessi verso la rappresentazione di luoghi significativi della società dello spettacolo, società che ha bisogno di star in tutte le sue versioni e che per questo aggiunge alle star dello spettacolo tradizionale anche archistar, chefstar, sartistar e così via. Per le archistar i musei hanno finito per rappresentare i luoghi della progettazione privilegiata in quanto luoghi ad alta comunicazione spettacolare e simbolica, tant’è che a un architetto basta progettare un museo per divenire una celebrità.
Ma c’è un dato linguistico da osservare: la maggior parte delle archistar ha visto nel museo un luogo in cui potersi permettere la massima libertà espressiva in virtù del fatto che il museo, soprattutto quello d’arte moderna e contemporanea, è un luogo in cui si espongono opere che sono il risultato di una libertà a 360 gradi, la libertà linguistica dell’arte da cui sono stati contagiati. È sorprendente, però, che sia stata proprio questa assunzione di libertà a generare critiche da parte degli artisti, che spesso si sono lamentati del fatto che questi musei non sono funzionali alle loro opere, insomma alla loro libertà. Va sottolineato che spesso ciò è avvenuto sulla carta, prima che gli edifici venissero realizzati, perché ad esempio il Guggenheim di Bilbao, progettato da Frank O. Gehry, icona massima di quanto andiamo dicendo, se all’esterno si presenta con forme futuriste, è bensì dotato di sale abbastanza tradizionali. Esempio diverso è quello del Maxxi di Zaha Hadid, con un esterno abbastanza ortogonale e un interno in cui domina la curva. Tuttavia, soprattutto da noi italiani questa dovrebbe essere vista come un’opportunità, perché se è vero che alcune tipologie di museo possono risultare poco funzionali all’allestimento di opere tradizionali, è anche vero che queste architetture potrebbero spingere alla commissione di opere ad hoc e quindi modificare la prospettiva dell’arte contemporanea. In certi casi, si creerebbero opere che sfidano il contenitore, cosa in cui gli italiani sono maestri. Per questo la risposta di Luciano Fabro alla mia domanda sulla questione, pubblicata su Flash Art, fu (cito a memoria): “Ma sai, noi artisti dell’Arte Povera siamo talmente abituati a lavorare in qualunque contesto che risolviamo anche il rapporto con tali architetture”.
Da noi gli artisti lavoravano gomito a gomito con gli architetti, o si inserivano in architetture progettate da altri in modo esemplare, perché ciò costituiva una sfida a cercare di fare meglio, come dimostra la relazione del Baldacchino di San Pietro che Bernini inserisce una settantina d’anni dopo sotto la cupola di Michelangelo, accentando una sfida e creando una relazione a cui guardare. Perché la questione, a mio avviso, non è archistar sì o archistar no, ma quale architettura funzionale e simbolica l’architetto ci sa dare come testimonianza del tempo in cui viviamo.
Giacinto Di Pietrantonio
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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