Conversazione con François Ozon, il vampiro della realtà
È uscito da pochi giorni - e trovate la recensione nella rubrica cinema di Artribune -, con buon esito di critica e pubblico, il film Nella Casa dell'ex enfant prodige del cinema francese, che sarà a breve anche in concorso a Cannes con Jeune et jolie. Il regista François Ozon racconta del suo rapporto con l'arte, col processo creativo e con gli attori. E cede qualche anticipazione sul film al festival.
Quanto un autore, regista o scrittore può vampirizzare le persone che lo circondano ai fini dell’arte? Fino a che punto è lecito spingersi in quanto artisti?
Sì, sono un vampiro. Ho bisogno di ispirarmi alla realtà, parto da una base quasi documentaria per riuscire a mettere in marcia il mio immaginario, che ha bisogno di alimentarsi con quello che ho intorno. Può essere un incontro per strada, un evento di cui sono testimone fortuito, la visita di un amico, un fatto di cronaca che leggo su un giornale o entrare in casa di qualcuno, come avviene nel caso di Claude. Da lì tutta una serie di opportunità di sviluppo si palesano, per cui indubbiamente manipolo questa realtà, ma è la realtà stessa a darmi la fonte d’ispirazione.
Come si evolve nella vita di un artista il rapporto col processo creativo? Claude e Germaine sembrerebbero la proiezione della stessa persona a distanza di molti anni…
Perché no, potrebbe essere… Le interpretazioni di uno spettatore si basano sull’immaginario e a volte sono diverse dalle intenzioni iniziali del regista. Di sicuro Germaine tende a identificarsi in Claude, peraltro sua moglie Joanne a un certo punto le dice: “Claude sembri tu quando eri giovane“. La differenza fondamentale è che Claude ha talento.
Nel film si dice che gli autori non sono mai soddisfatti dei loro finali. Allora come si trova il finale perfetto? C’era un altro finale per questa storia?
Quello che faccio sicuramente è lasciare allo spettatore il compito di tracciare la fine della storia che è raccontata all’interno della casa. La mia scelta nel finale di questo film è lasciare un’apertura, perché trovavo fondamentale ripresentare quello che è l’elemento più importante del film, cioè il rapporto tra insegnante e allievo. I due si ritrovano alla fine seduti su una panchina, ancora una volta a raccontarsi delle storie. Perché questo è il fulcro del film: due solitudini che si ritrovano, due individui, in qualche modo disadattati, che hanno bisogno della creazione e della finzione della creazione narrativa per poter funzionare.
Capisco che la fine sia un po’ frustrante per lo spettatore, perché in qualche modo l’attesa è enorme. A maggior ragione perché Germaine dice che la fine deve essere sorprendente e deve essere percepita come l’unica conclusione possibile a una storia o a una vicenda. Io, invece, prima coinvolgo lo spettatore e lo immergo nella storia, e così facendo alimento un’aspettativa su un finale stile Michael Haneke, dove c’è una strage o una conclusione apocalittica. E invece scelgo di riaprire la storia in un altro modo. Può essere destabilizzante.
Il ruolo della seduzione nel plot: da una parte quella verso la letteratura, dall’altra quella tra i personaggi. Come hai lavorato su questo tema e a livello narrativo come sei riuscito a inserire le citazioni di Pasolini piuttosto che di Woody Allen?
Più che la seduzione, mi interessava la manipolazione: questo è il tema che emerge in modo evidente. È vero che Claude seduce Ester, ma quello che accade è che rimane intrappolato nel suo tentativo di manipolazione. Lo scopo della seduzione è proprio quello di manipolare Ester per poter continuare nella sua narrazione, nella sua storia, e però si innamora e quindi cade nella trappola del suo stesso gioco. È vero comunque che ognuno di noi seduce per manipolare.
Per quanto riguarda i riferimenti, ho chiesto a Fabrice Luchini e a Kirstin Scott Thomas di ispirarsi alla coppia formata in tante occasioni da Woody Allen e Diane Keaton per riuscire a creare la loro coppia nel film. Ma un altro riferimento importante è a Hitchcock, colui che ha teorizzato non solo il concetto di suspense, ma il ruolo/posto dello spettatore all’interno di un film, particolarmente evidente ne La finestra sul cortile. Confesso che inizialmente non avevo pensato all’analogia con la sequenza finale del mio film, ma sono tanti i giornalisti che hanno colto questo parallelismo assolutamente involontario. Per me la fine era diversa. Volevo che fosse una sorta di installazione d’arte contemporanea per condannare o in qualche modo convertire Germaine alla narrazione contemporanea che lui ha tanto detestato finché è stato con sua moglie. L’alveare di case oggetto dello sguardo del professore e del suo alunno mi dava proprio l’impressione di presentarsi come un’installazione.
Il personaggio di Claude è intrappolato nella sua stessa creatura. Questo è un meccanismo che era proposto anche in Swimming Pool nella relazione tra la scrittrice e la sua musa, interpretata da Ludivine Sagnier. I due film sembrano speculari. Come è cambiato il tuo punto di vista sul processo creativo dell’arte e sul rapporto che si instaura tra lo scrittore e la sua creatura da quel film a questo?
Il tema di Swimming Pool era l’ispirazione e la crisi di ispirazione che stava vivendo la scrittrice Sarah Morton. In Dans la maison Claude è pieno di fonti di ispirazione ed è sufficiente entrare nella casa per avere mille idee su che cosa raccontare. Il suo problema è come raccontarlo, come dare una forma a questa materia e quindi che genere scegliere: la commedia, il dramma, la farsa. Che sguardo portare sulla sua storia. Mentre Sarah Morton sapeva perfettamente che cosa doveva fare e il suo dilemma era far affiorare il desiderio per mettere in pratica la forma.
Con Emanuelle Seigner avevi un progetto mai realizzato in cui, stando alle voci, doveva avere un rapporto amoroso con un adolescente. Ora l’hai scelta per un ruolo simile, ma lei ha detto di non essersi riconosciuta in questo personaggio…
Lei non si è piaciuta nel film, si è trovata molto brutta. Avevo un progetto con Emanuelle in cui lei avrebbe avuto un’avventura con un amico del figlio come nel film Quell’estate del ’42 di Robert Mulligan, in cui un adolescente aveva delle fantasie per una donna più grande di lui, ma non ho trovato i soldi per realizzarlo. A Emanuelle vengono sempre proposti ruoli di donna sessualmente aggressiva nel cinema francese, io invece avevo voglia di vederla incarnare un personaggio tenero e materno di una donna di mezza età.
Il personaggio ha attinenza con quello interpretato dalla stessa attrice agli esordi, oggetto di un’ossessione letteraria in Luna di fiele…
Non ci avevo pensato, non me lo ricordo. Peraltro in Luna di fiele c’era anche Kristine Scott Thomas e appunto le due hanno recitato insieme. Durante le riprese avevo girato una scena con loro due nella casa, ma poi l’ho tagliata al montaggio…
Può anticiparci qualcosa su Jeune et Jolie?
È prevista l’uscita francese per la fine di agosto. Il film sarà in concorso al prossimo Festival di Cannes. Si tratta della storia di una 17enne che scopre la propria sessualità.
Letteratura vs arte contemporanea: è la tua visione personale o solo un pretesto narrativo?
Quello che mi interessava era mostrare all’interno della stessa coppia due visioni completamente opposte dell’arte. Il conservatore Germaine, che ha una visione classica della letteratura e dell’arte, mentre sua moglie è alla ricerca di nuove forme di espressione artistica e narrativa. Mi interessava questa tensione, questo conflitto. Personalmente non scelgo.
Federica Polidoro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati