La doppia anima di Keith Haring
Nonostante venga spesso etichettato come un artista “leggero”, Keith Haring portava avanti un discorso sociale e politico di grande forza. Con l’obiettivo di condurre l’arte a contatto con più persone possibili. Una mostra in due spazi parigini (il Musée d’Art Moderne e il Centquatre 104) racconta il lato impegnato del suo lavoro.
Insieme al volto di Che Guevara, alle frasi di Jim Morrison e alle zuppe di Andy Warhol (che tra le altre cose era anche suo amico), gli omini di Keith Haring sono sulle t-shirt, le tazze e le spillette di mezzo modo. Ma, aldilà dell’aspetto più commerciale, chi era davvero Keith Haring? È questa la domanda che si pone la doppia mostra The Political Line che è in corso a Parigi, tra il Musée d’Art Moderne MAM e il Centquatre 104. Quest’ultimo, spazio polifunzionale dedicato alle forme emergenti di arte urbana, ospita i grandi formati dell’artista, tra cui gli impressionanti pannelli dei Dieci Comandamenti che l’artista ha dipinto nel 1985 tra le grandi arcate del CAPC di Bordeaux. Edificio dedicato storicamente al servizio municipale delle pompe funebri, il 104 è stato riaperto al pubblico nel 2008 e si consacra alla gioventù del quartiere (e di chiunque voglia accedervi) come luogo di espressione spontanea delle pratiche più diverse, dall’hip hop alla giocoleria di strada, passando per i gruppi di lettura. Vero incubatore della creatività contemporanea, si tratta di un universo che sarebbe di certo piaciuto molto a Haring, che tra l’altro era molto affezionato alla città di Parigi. “When I grow up I would like to be an artist in France“, scriveva l’artista a dieci anni per un esercizio di calligrafia a scuola.
A quasi trent’anni dalla sua prima esposizione nella capitale francese e tredici anni dopo la sua morte precoce, la capitale francese gli consacra un’esposizione incentrata sul suo impegno politico. Che sia attraverso i contenuti dei suoi affreschi o semplicemente attraverso la pratica stessa del disegno, Haring ha sempre mantenuto viva la volontà di veicolare un messaggio forte: l’arte accessibile a tutti. A soli vent’anni, questo ragazzo della Pennsylvania (con già una mostra al suo attivo) si trasferisce a New York per frequentare la School of Visual Arts e presto si rende conto delle immense potenzialità della Grande Mela. Nei primissimi anni Ottanta, ancor prima dell’esplosione dei mass media, Keith Haring vede nella metropolitana di New York un primo abbozzo di quello che diventerà la Rete negli anni Novanta. Prima dell’avvento d Internet, l’artista tesse la sua rete grazie agli spazi pubblicitari inutilizzati, sul cui fondo nero disegna con il gesso bianco. È l’epoca dei subway drawings. Dal 1980 al 1985 ne disegnerà un numero incalcolabile, sempre con il rischio di farsi arrestare per “criminal mistreat”, col fiato sospeso, senza staccare il gesso dal foglio. I subway drawings sono una linea ininterrotta che smette solo per ricominciare a scorrere sul disegno successivo. In un’intervista del 1990 su Arts Magazine Haring dichiarava: “era una linea continua, una linea molto forte graficamente, e soggetta a un limite temporale. Dovevo lavorare più velocemente possibile. Senza poter correggere niente. In realtà non potevo permettermi di sbagliare. Dovevo stare attento a non farmi prendere”. Non è il contenuto a essere politico qui, ma il mezzo stesso. Per dirla con Marshall McLuhan, “the medium is the message”.
Ma l’utopia di un’arte per tutti – e che appartiene a tutti – s’infrangerà contro l’atto di “salvataggio” dei suoi disegni da parte dei collezionisti. “L’atto stesso della creazione è molto chiaro e puro. Ma tale creazione risulta immediatamente in una ‘cosa’ che ha un ‘valore’ che merita di essere considerato. Anche i disegni della metro, realizzati evidentemente per ‘l’atto’ e non per la ‘cosa’, riappaiono oggi, ‘salvati’ dalla distruzione da aspiranti collezionisti”. Ecco una delle molteplici ambivalenze della carriera di Keith Haring. Inizia a disegnare per strada, sui muri pubblici, ma presto entra a far parte dell’establishment artistico. Il principe della strada viene invitato a palazzo. Vuole parlare alle masse, ma è proprio il suo stesso tradirsi che lo renderà accessibile ai più, generazione dopo generazione. Lo stesso Haring, che condanna il potere del dollaro, che ne fa un emblema del male, un’incarnazione del peccato originario, finisce per “cedere” agli argomenti del suo amico Andy Warhol e apre il suo Pop Shop a Manhattan e poi a Tokyo dove vende prodotti derivati della sua arte. Lo stesso capitalismo che condanna nelle sue opere gli permette di diffondere al più vasto pubblico le proprie opere. Bisogna dire che l’impresa è facilitata dal suo stile, immediato, festivo e un po’ naif.
Haring sviluppa il proprio linguaggio visivo a partire dall’idea – alla SVA studia la semiotica con Keith Sonnier – che le immagini possano funzionare come le parole. La sua è un’arte di segni, simboli, icone, che per la loro stessa natura veicolano un messaggio chiaro, semplice, immediatamente intellegibile e in un certo senso universale. I suoi bebè raggianti, gli angeli volteggianti, i cuori di colore rosso vivo e i cani che abbaiano sono della stessa attualità oggi rispetto a venti o trent’anni fa. Il suo linguaggio prende in prestito alcuni tra i più suggestivi simboli culturali della nostra epoca (il fungo atomico, la croce, gli schermi tv o dei pc) e, con un gioco di scala, di colore e di materia, li trasforma in oggetti pop della società di consumo, dirottandoli dalla loro significazione culturale e politica originaria. Il capitalismo, la religione (nelle sue forme fondamentaliste), i mass media, il razzismo, la minaccia nucleare, l’HIV, the “Great White Way”: le due esposizioni passano in rassegna tutti i temi della lotta di Haring, che nelle sue opere sembra urlare a vivi colori “Ignorance=Fear” e “Silence=Death”. Proprio a causa della sua popolarità, Haring è stato spesso considerato come un artista “facile”, ma il suo aspetto giocoso nasconde un lato oscuro.
Oggi, The Political Line riscatta il suo impegno politico, la sua rabbia. Prima di essere una calamita su un frigorifero, Keith Haring è stato un grande artista. Uno vero. Forse a rendergli davvero giustizia sarebbe un’immagine: una linea ininterrotta di gesso bianco che disegna una rete. Più la linea avanza, più i primi segni si cancellano. Il gesso è una materia fragile, friabile, peritura. Alla fine rimane una trama virtuale, di cui non c’è più traccia, non c’è più “cosa”, non c’è più oggetto, quindi non c’è più valore. Questo forse era il sogno utopico di Haring. Un’opera di cui non resta traccia. Lo tradiamo nel momento stesso in cui andiamo a vedere le sue opere in mostra. Lo tradiamo di continuo, per il solo fatto di conoscerlo. E di amarlo.
Martina De Fabrizio
Parigi // fino al 18 agosto 2013
Keith Haring – The Political Line
MUSEE D’ART MODERNE DE LA VILLE DE PARIS
11 avenue du Président Wilson
01 53674000
www.mam.paris.fr
104 CENTQUATRE
104 Rue d’Aubervilliers
www.104.fr
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati