Riconciliare l’inconciliabile. Parola a Guy Yanai
Finalmente riunito il trittico della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. Come è possibile? Ci pensa l’artista israeliano Guy Yanai, in mostra al Centro d’Arte Contemporanea Velan di Torino. Il suo tentativo si ispira al “tikkun” ebraico, che significa “riparare il mondo”. Artribune l’ha intervistato.
Conflitto, assenza di comunicazione, cura: in questa mostra si avverte un sottile legame tra i diversi lavori. Quanto c’entra l’elemento biografico?
È vero, in questa mostra c’è un legame tra tutti i lavori. Se devo essere sincero, la scelta è stata perlopiù opera della curatrice, Noam Segal, che ha messo insieme i dipinti. A Tel Aviv ne abbiamo esposti solo cinque, mentre a Torino abbiamo aggiunto alcuni lavori precedenti: Marriage, First We Feel Then We Fall e The Athlete. Mi viene sempre chiesto qual è il legame tra Battle, Living Room From The Outside e Therapy. Per me in Therapy c’è una sorta di “living“ room, in Living Room From The Outside una battaglia e in Battle molta terapia. Ho dipinto il mio soggiorno dall’esterno perché non so cosa fare in quello spazio, ho dipinto la stanza dove faccio terapia perché lì non riesco a parlare, ho dipinto il matrimonio perché non avevo idea di come fosse essere sposati. Sono state queste situazioni impossibili a suscitarmi i dipinti.
Nel tuo lavoro solitamente il conflitto è più un dato di partenza che qualcosa di visualizzato. Le tue opere appaiono come delle isolate visioni statiche. In questo caso il conflitto invece viene fuori come dato visivo nel trittico ispirato a Paolo Uccello. Colpiscono un insolito affollamento e un certo dinamismo. Cos’è cambiato?
Hai ragione, di solito i dipinti finiscono con l’essere immagini statiche, qualcosa che non è in movimento. Una sorta di immagine inquieta. È un aspetto su cui rifletto molto mentre lavoro, mentre scelgo cosa dipingere e con quali immagini lavorare. Per quanto riguarda il trittico ispirato a Paolo Uccello, dovevo farlo e basta. Non so davvero perché, sentivo solo di doverlo fare, e quando si è presentata l’occasione l’ho colta al volo. All’inizio volevo semplicemente remixarli in senso musicale, cercare di prendere le distanze e farli miei. Durante il lavoro ho provato molta rabbia per i dipinti, continuavo a notare quanto fossero belli e ho cominciato a capire come lo stesso Paolo Uccello fosse migliorato dal primo all’ultimo. Volevo anche metterli insieme, come sai ogni dipinto del trittico è in una città europea diversa. In ebraico esiste la parola “tikkun”, più o meno riparare (il mondo), e io volevo farlo in maniera quasi ingenua. Però hai ragione, nei dipinti c’è una sorta di arrangiamento dei “dati”, e in questo senso qui sono stato un compositore.
Stavolta hai scelto un artista del Primo Rinascimento, altre volte compaiono citazioni da artisti contemporanei o designer. Che ruolo riveste la citazione nella tua ricerca artistica?
Credo che le citazioni siano un insieme di cose diverse, alcune molto profonde prese dal mondo della musica, altre molto infantili. L’aspetto infantile è estremamente semplice: mi piace qualcosa, mi piace qualcuno, e mi viene il desiderio primitivo di usarlo, di elogiarlo, di riadattarlo, di prenderne le distanze. Diventa una specie di discendenza orizzontale, con Jean Prouvé non è poi tanto diverso che con Paolo Uccello. Il ruolo della citazione, forse, è quello di strumento per avvertire un legame, per non sentirsi troppo soli, per creare un’affinità con la mia famiglia di creatori, forse per costruirmi delle pareti attorno.
Un mondo fatto di oggetti. Il design ha invaso ogni aspetto della vita. Piante, uomini, animali diventano oggetti nelle tue opere, anche attraverso la saturazione dei colori. Nella tua ricerca volta a rinnovare il linguaggio pittorico consideri più importante l’aspetto decorativo o quello strutturale
Nessuno dei due, entrambi e ciascuno di loro preso individualmente. Dipende dal dipinto. Nuit Banai ha scritto che le strutture di alcuni miei lavori somigliano alle piante, e io mi ci ritrovo. A volte l’aspetto decorativo di certi lavori serve a nascondere la struttura, a volte la struttura serve a nascondere le decorazioni più piccole. Non c’è un sistema né un’ideologia. Ogni lavoro definisce se stesso.
Guardare il mondo attraverso una quadrettatura che ricorda l’effetto pixel della computer grafica. Il mondo si è trasfigurato in immagini che possono generare ulteriori immagini. È il primo passo per ridisegnare le nostre vite? Forse l’uomo non è così diverso da un pezzo d’arredo?
Per me si tratta piuttosto di non saper amare. Sono diverso da una sedia? Non lo so. Ogni mattina non so decidere cosa mangiare a colazione, dico sul serio. Tutta questa possibilità di scelta è assurda, e ci tocca trasformarci in assemblatori. Viste le migliaia e migliaia di immagini, un dipinto deve essere molto consapevole. Detto questo, mi ritengo fortunatissimo di poter lavorare. Credo che quest’epoca storica sia la migliore per l’arte. Forse tutte le linee dritte e la natura geometrica delle mie opere sono un tentativo di introdurre umanità nei dipinti.
Questa compenetrazione di piani e figure geometriche riflette l’influenza di Paul Klee in lavori come First We Feel, Then We Fall o Battle of San Romano 2. Consideri Klee una semplice fonte o è più una questione di affinità?
In tutta onestà non lo studio da diverso tempo. A diciott’anni ho letto tutti i suoi diari, e sono stati una fonte di ispirazione, i racconti dei suoi viaggi e dell’opera. Anche i quadrati mi hanno influenzato moltissimo.
Le tue pennellate appaiono solide, costruttive. Altre volte si mostrano come segni astratti, bande di colore. A cosa rimandano queste strisce colorate?
Questo è un aspetto che mi appassiona molto. Il fatto che la semplice intenzione di una pennellata possa in qualche modo arrivare ai processi mentali di chi guarda. A volte una pennellata è solo una pennellata che non rimanda a niente, altre volte la stessa identica pennellata può descrivere qualcosa, altre ancora può negare qualcosa. Le strisce possono davvero rimandare a tutto ciò che voglio, ed è straordinario perché basta un semplice cambiamento di intenzione per farlo e, in qualche modo, chi guarda lo capisce immediatamente.
La realtà non rappresenta un unico intero. Contraddizione e ossimoro sono alla base del tuo linguaggio artistico?
Senza dubbio. Sono convinto che oggi la pittura debba avere questo aspetto di inconciliabilità. Che la menzogna chiamata pittura debba contenere sette bugie in una. Circa un anno fa ho addirittura curato una mostra intitolata The Irreconcilable. Tale negazione, l’essere contemporaneamente questo e quello, mi esalta, lo trovo un aspetto molto speciale della pittura. Contraddirsi di continuo, verificare altre possibilità, è anche estremamente umano.
La mostra arriva al Centro d’Arte Contemporanea Velan di Torino dalla Kunsthalle Rothschild 69 di Tel Aviv. Ci sono delle differenze tra le due esposizioni? E cosa è cambiato dal punto di vista della ricezione da parte del pubblico?
Innanzitutto la mostra di Torino è un po’ più grande di quella di Tel Aviv, che esponeva solo cinque dipinti, tutti della stessa dimensione, e quindi aveva un ritmo molto diverso. A Torino il trittico ispirato a Paolo Uccello è appeso su una sola parete ed è straordinario vederlo disposto così. Una delle principali differenze è che in Italia tutti sono cresciuti con Paolo Uccello, per certi versi fa parte del canone nazionale. Ovviamente la comunità artistica di Tel Aviv conosce il trittico, ma molti visitatori non sapevano che si trattasse dell’adattamento di un’opera d’arte del primo Rinascimento, quindi l’hanno osservato con sguardo nuovo, che non è né meglio né peggio, ma è un’esperienza del tutto diversa. Per me è molto importante esporre questo progetto in Italia.
Molti lamentano che proprio in Italia la pittura venga trascurata tra le altre forme d’arte, nonostante l’importante contributo alla storia della pittura. A Tel Aviv, invece?
Capisco perfettamente perché la pittura venga trascurata in Italia, la sua storia può essere un pesante fardello da portare. Dev’essere molto difficile dipingere in Italia, addirittura quasi un atto di estremismo. E con la storia del movimento dell’Arte Povera, credo che per molti artisti abbia più senso non dipingere in Italia adesso. È strano, perché per me è una terra molto sensuale, un luogo che trasuda estetica. Visto che in Italia non si espone molta pittura, poter esibire il mio progetto a Torino mi ha esaltato ancora di più. A Tel Aviv abbiamo a malapena una “storia”, quindi c’è un senso di libertà totale. Anche se ci sono molti artisti, la pittura non è in primo piano. Prevalgono video e installazioni.
Per molto tempo ogni dipinto che creavo doveva giustificarsi come entità “legittima”. La pittura doveva farsi valere tra video, performance, time-based art e così via. Per certi versi ero molto invidioso di tutti gli altri mezzi artistici. Quando applico a una superficie pigmenti mescolati nell’olio mi sento molto primitivo. Come il bambino nell’angolo con cui nessuno vuole giocare. Negli ultimi tre anni tutto questo è cambiato. Niente può sostituire la pittura, e più il mondo cambia, più la pittura diventa importante come mezzo per esprimere l’esperienza e l’apparenza della nostra vita.
Per concludere, qual è l’artista italiano che preferisci?
Difficile rispondere a questa domanda. Forse Piero della Francesca. Io adoro tutti. Cy Twombly ha vissuto tutta la vita in Italia, vale come italiano?
Antonella Palladino
Torino // fino al 1° giugno 2013
Guy Yanai – Battle, Therapy, Living Room
a cura di Noam Segal
VELAN
Via Saluzzo 64
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