Che cosa conta di più nel vostro lavoro, la pratica performativa o la realizzazione di immagini dotate di una certa carica visiva?
La performance nel nostro lavoro fino ad oggi è una pratica connessa alla realizzazione di immagini o video. Per questo sono importanti entrambe.
Come contribuiscono le vostre opere – penso ad esempio a Cu Cu, Lotta Sommersa e Pic Nic, tutte del 2002 – ai fini di una possibile riflessione critica sulla realtà sociale?
Quando decidemmo di utilizzare lo pseudonimo goldiechiari nel 2001 chiedemmo alla nonna di Eleonora difare all’uncinetto dei passamontagna con i nostri nomi ricamati e nacque Cu Cu (2002), un dittico nel quale siamo fotografate nell’atto di togliere la maschera. La stessa estate a Ostia realizzammo un autoritratto immerse nel mare con pugno alzato e boccaglio, Lotta sommersa (2002). Utilizzammo l’immaginario politico che faceva parte della nostra quotidianità e del nostro contesto, con una forte dose di autoironia per autorappresentarci. Pic Nic (2002) è la prima fotografia del ciclo bu coliche, è un dejeuner sur l’herbe nel paesaggio periferico di Roma. Alle nostre spalle la discarica di Malagrotta. Le opere parlano di noi e del nostro sguardo sul mondo.
Una nuova Carmen Miranda finisce in una discarica e ha inizio una danza in mezzo ai rifiuti. Ci dite qualcosa in più su questa vostra opera, Dump Queen?
Nel video, Lotta Melin, coreografa e danzatrice svedese, veste i panni della famosa attrice brasiliana degli Anni Quaranta Carmen Miranda, oggi conosciuta più per le sue imitazioni parodistiche che per la sua carriera hollywoodiana. Nella scenografia di una montagna di spazzatura sovrastata dal volo di uno stormo di gabbiani, la performer, come in un rito di rimozione, balla incosciente sui rifiuti, ignorando il degrado che la circonda.
L’aspetto più interessante nella realizzazione di dump queen è il concetto di rimozione psicologica come parte integrante della cultura occidentale. Tutto ciò che è merce e ha un’aurea di attrazione crea un’economia fondata sulla seduzione contenuta nell’oggetto che provoca il desiderio e quindi il suo acquisto che è l’appagamento del desiderio di possesso. La merce nel momento in cui viene comprata, utilizzata e consumata perde a poco a poco il suo potere attrattivo fino al punto da diventare scarto. Nessuno di noi pensa mai a questo viaggio compiuto dalla merce da oggetto di desiderio a spazzatura, soprattutto la fase finale del percorso è un momento che tendiamo a rimuovere, a dimenticare perché tutto ciò che usiamo, che consumiamo nel momento in cui esce dalle nostre case, dalle nostre vite, lo dimentichiamo. Noi siamo quasi ossessionate dall’idea dell’accumulazione di tutti questi scarti. La discarica per noi diventa una sorta di luogo simbolico della rimozione.
Il vostro ciclo di opere Dispositivi di rimozione provoca una sorta di cortocircuito visivo, dovuto all’accostamento tra immagini di repertorio delle stragi italiane e icone erotiche degli Anni Sessanta. Come possono contribuire questi collage ai fini di una possibile riflessione critica sulla realtà sociale?
Il titolo della serie si riferisce allo specifico dispositivo di rimozione psicologica connesso ai tragici eventi, sottolineando l’aspetto di collettiva dimenticanza della storia italiana. In termini psicologici, la rimozione è un meccanismo psichico che allontana dalla coscienza desideri, pensieri o residui mnestici considerati inaccettabili e insostenibili dall’Io, la cui presenza provocherebbe dispiacere. L’inconscio stesso, per la psicoanalisi, si costituisce in massima parte come conseguenza della rimozione.
Lo sguardo delle figure femminili e i loro corpi sono gli strumenti stessi attraverso i quali si attua la sottrazione di memoria. Esse catturano lo sguardo dello spettatore trasformando il tragico contesto in bianco e nero in un astratto e geometrico background. Dal nostro punto di vista, i Dispositivi di rimozione (2010-2012) nella loro ripetitività – per il momento sono 65 – e nel loro contrasto, attraggono e allo stesso tempo provocano repulsione nello spettatore, mettendolo di fronte alla nostra storia recente irrisolta.
Con Genealogia di Damnatio Memoriae il vostro lavoro si è spostato dal piano della produzione di immagini a quello dell’oggettualità: le date e le località degli attentati avvenuti durante il periodo italiano della “strategia della tensione” (1969-1980) sono incise su alberi vivi. Come è nata questa vostra installazione nella quale la memoria storica viene iscritta sugli oggetti naturali?
Dalla nostra prima personale nel 2002 abbiamo realizzato lavori installativi come Sfera (2002), Welcome (2004), Nido d’amianto (2004) e altri. Genealogia di Damnatio Memoriae (2009) è il primo lavoro installativo realizzato con materia vivente: una magnolia intagliata con le date e gli eventi cruciali della strategia della tensione.
Nel 2006 stavamo lavorando sui simboli che costruiscono e rappresentano l’ideale di appartenenza nazionale. Quello che ci interessava era la storicità, la caducità e l’assenza di naturalità degli stessi concetti e allo stesso tempo la loro profonda emotività. “Ernest Renan ammise con cinica franchezza che se si vuole costruire una nazione è cruciale […] dimenticare qualcosa: ‘L’oblio e direi perfino l’errore storico sono un fattore essenziale della formazione di una nazione’”. Alla luce di questa evidenza ci interrogammo sugli eventi degli ultimi quarant’anni che era necessario dimenticare per sentirsi fieri di essere italiani.
La damnatio memoriae si riferisce proprio a questa genealogia di dimenticanza collettiva. Si tratta della pratica di condanna in uso nell’antica Roma, nella quale il condannato era punito con l’eliminazione di tutte le memorie e i ricordi che lo riguardavano. Al contrario, l’albero genealogico rappresenta un simbolo solitamente familiare e comune per individuare la propria discendenza e ricordare i legami di sangue. Nella genealogia, questo simbolo, viene risemantizzato come memoria collettiva, raccontando una storia sanguinosa, una storia di sconfitte e perdite che si contrappone violentemente con l’ideale nazionale e la sua celebrazione. Si tratta di una genealogia del rimosso collettivo.
Da questa ricerca nasce Genealogia di Damnatio Memoriae che viene esposta per la prima volta alla 53. Biennale di Venezia nel Padiglione di Murcia, The Fear Society, ora piantata nel giardino di Museion e recentemente ampliata e rivisitata per la mostra La storia che non ho vissuto (testimone indiretto) curata da Marcella Beccaria per il Castello di Rivoli nel 2012 con tre tigli intagliati, piantati ora nel giardino del museo.
Riferendovi a un gioco di prestigio del mago Harry Houdini, recentemente avete presentato una nuova installazione, Hiding the Elephant, avviando così un nuovo ciclo della vostra ricerca artistica. Avete voglia di dirci qualcosa di più in proposito?
Hiding the Elephant, letteralmente occultando l’elefante, si riferisce alla spettacolare performance del mago Harry Houdini che nel 1918 fece scomparire un elefante di fronte a migliaia di spettatori all’ippodromo di New York. Hiding the Elephant è il nome dell’installazione presentata per la prima volta nello spazio vetrina indipendente di Roma, Edicola Notte. Si tratta di 11 sagome di teste bidimensionali di politici e spie scomparse misteriosamente durante la guerra fredda: da un lato l’immagine in bianco e nero del volto dello scomparso e dall’altro la superficie specchiante. Le teste sono appese a diverse altezze nello stretto spazio di Edicola Notte e muovendosi, producono differenti effetti di proiezione di ombre e luci delle sagome sulle pareti. La sala viene ciclicamente invasa da un fumo denso, rendendo i volti irriconoscibili, suscitando la curiosità dello spettatore. Il disvelamento avviene dopo pochi minuti di attesa, nei quali pian piano il fumo si dirada, mostrando chiaramente i visi.
Questo nuovo ciclo di lavori indaga la relazione che dal nostro punto di vista intercorre tra le pratiche illusioniste e quelle dei servizi segreti nella riproduzione di una realtà fittizia. Ci interessa la similitudine nella pratica dell’inganno e dell’illusione nella rappresentazione della realtà da parte della magia scenica e della politica dei servizi segreti. Attraverso l’illusione, la velocità e l’abilità, il mago concentra l’attenzione dello spettatore su alcuni elementi e ne nasconde altri. Rendendo il trucco realista inganna lo spettatore e lo rende cieco di fronte al palco, restituendo una sensazione di stupore infantile e incredulità. La relazione tra la magia e le pratiche dei servizi segreti sta nel fatto che il pubblico in qualche modo vuole essere eterodiretto non vuole scoprire il trucco. La questione si gioca nella “ differenza tra credere e vedere, tra credere di vedere e intravedere o meno” (Jacques Derrida).
Ciò che ci ha maggiormente colpito nella ricerca è l’effettiva collaborazione tra maghi professionisti e servizi segreti in importanti operazioni militari. Esemplare l’Illusionista Jasper Maskelyne, al servizio del MI16 britannico durante la seconda guerra mondiale, ideò tecniche di mimetizzazione e mascheramento che permisero agli Alleati di far fallire molte azioni belliche tedesche nel Nordafrica. Maskelyne, grazie a giochi di luce, fu artefice della “sparizione” del Canale di Suez, nelle mire dei bombardieri tedeschi. Mimetizzò migliaia di carri armati in camion che lasciavano impronte credibili .“Spostò” il porto d’Alessandria costruendone una riproduzione (in paglia, fango e legno) qualche miglio più distante rispetto al porto vero e proprio, depistando così i bombardieri italo-tedeschi. I documenti sulle sue “Illusioni” durante la guerra saranno desecretati nel 2043.
Mentre la mostra dove esporremo questo nuovo ciclo sarà visibile e visitabile molto prima: a marzo 2014 al Passerelle Centre d’art contemporain, Brest, Francia.
Davide Dal Sasso
labont.it
www.goldiechiari.com
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