Biennali, che storia!
Biennali, Manifesta, Documenta, chi più ne ha più ne metta. Una storia che parte nel 1895 con la prima edizione veneziana e che oggi è il tema di un importante libro. Anzi, due. Si tratta di “Salon to Biennial 1863-1959” e “Biennials and Beyond: Exhibitions that Made Art History, 1962-2002”. Un percorso nella storia delle Biennali tra il 1863 e il 2002. È appena uscito il secondo volume, edito da Phaidon. Di questo e altro abbiamo parlato con l'autore, Bruce Altshuler, direttore del programma in Museum Studies alla New York University.
Al Salon des Refusés del 1863 era dedicato il primo capitolo del primo volume di questa storia delle mostre proposta per Phaidon da Bruce Altshuler. Ora è uscito il secondo e ultimo tomo, per una ricognizione efficace e inevitabilmente incompleta. Anzi, proprio nel criterio delle scelte risiede uno degli aspetti più interessanti del progetto. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Il libro, nei suoi in due volumi, ripercorre la storia delle Biennali tra il 1863 e il 2002. Come è cambiato a tuo parere lo statuto della Biennale dalle origini a oggi?
La prima Biennale nel 1895 nasce sullo sfondo delle esposizioni internazionali del XIX secolo, in cui le creazioni di carattere artistico e commerciale venivano esposte sotto forma di competizione tra nazioni. In tal senso la struttura dei Padiglioni Nazionali è stata centrale nella progettazione della Biennale di Venezia, anche se queste grandi mostre ricorrenti servivano a un altro scopo. La seconda esposizione di questo tipo è stata la Carnegie International, creata dall’omonimo industriale Andrew Carnegie nel 1896, con l’obiettivo di portare a Pittsburgh l’arte contemporanea di tutto il mondo e mettere insieme una collezione per il museo che aveva fondato nella stessa città.
Attrarre l’arte internazionale in un luogo lontano dai soliti centri, accrescendo così lo status culturale della città, è anche l’obiettivo che ha portato alla fondazione della Biennale di San Paolo nel 1951. Con la prima edizione di Documenta, nel 1955, la politica entra in scena, dimostrando con quel progetto il ritorno della Germania nella comunità delle “nazioni civilizzate” dopo gli orrori della guerra e della repressione nazista dell’arte moderna. Analoghe motivazioni politiche generarono la Biennale di Johannesburg e quella di Gwangju nel 1995, che celebrarono la fine dell’apartheid in Sudafrica e della dittatura nella Corea del Sud, anche se la diffusione delle biennali fuori dai centri euro-americani è anche collegata al fenomeno della globalizzazione.
Un altro momento importante nella storia delle biennali e delle esposizioni artistiche si è verificato molto prima, agli inizi degli Anni Settanta, quando le grandi mostre si diedero l’obiettivo di offrire una cornice interpretativa per comprendere la pratica artistica contemporanea. Dopo la Documenta 5 (1972) di Harald Szeemann, i curatori hanno cominciato a costruire le biennali attorno a un tema centrale. A questo fenomeno si è affiancata l’ascesa del curatore come produttore culturale – e del mercato dell’arte contemporanea – dando così vita all’attuale sistema delle biennali.
È indubbio il fenomeno della biennalizzazione. Abbiamo assistito, dagli Anni Novanta in poi, a una proliferazione sempre più massiccia di questo genere di mostra nel mondo. Cosa ha portato, a tuo parere, un numero crescente di territori a dotarsi di una propria rassegna d’arte contemporanea? Si è trattato di un mero fatto di moda, oppure della necessità di rimarcare attraverso l’arte la propria identità nazionale, in un’epoca in cui i confini geografici sono sempre più labili?
Con l’avvento dell’età postcoloniale negli stati dell’Africa e dei Caraibi, la caduta del muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica, lo sviluppo economico in Cina e nelle altre nazioni asiatiche, nuove esigenze – economiche, politiche e ideologiche – hanno dato vita all’espansione del sistema espositivo attraverso le biennali. Oltre alla capacità che queste mostre hanno di attrarre l’attenzione culturale a livello mondiale, le biennali hanno stimolato lo sviluppo delle infrastrutture e del turismo. Inoltre hanno creato nuove opportunità per artisti prima esclusi dal mondo dell’arte internazionale, portando freschezza – sia a livello di opere che di strategie curatoriali – in un sistema che si nutre del nuovo. E, certamente, non è meno significativo l’orgoglio civico e nazionale che può provenire dall’ospitare una biennale.
Qual è dunque, a questo proposito, il ruolo geopolitico – se ne hanno uno – delle biennali?
Come tutti i grandi eventi culturali, le biennali hanno un’importante funzione geopolitica, perché la cultura è segno di status e di potere. Questo è visibile, ad esempio, nello sviluppo della Biennale di Shangai e di Sharjah, simbolo della crescita economica e politica della Cina e degli Emirati Arabi Uniti.
E per ciò che concerne i padiglioni nazionali? Ora che San Paolo ha eliminato i padiglioni, Venezia resta l’unica rassegna a mantenere questo criterio…
Fino ai tardi Anni Sessanta, il sistema delle partecipazioni nazionali della Biennale di Venezia è stato oggetto di numerose critiche, ma molte persone ritengono oggi che la maggior parte delle esperienze che ricordano come memorabili si sono svolte proprio nei padiglioni nazionali, dove corpus di opere o opere singole (senza dimenticare le impostazioni curatoriali) sono esposte al di fuori dalla grande mostra organizzata dal direttore artistico. Se letta in termini di competizione tra nazioni, l’impostazione ha poco senso, ma se pensiamo ai padiglioni come luoghi in cui vedere opere e installazioni eccezionali presentate con intelligenza, questi conservano senza dubbio un ruolo centrale nell’esperienza della Biennale.
Sempre a questo proposito, che senso ha, a tuo parere, la gestione libera che molti Paesi hanno adottato quest’anno? Lo stato-nazione è semplicemente un concetto superato oppure le “limitazioni” dei padiglioni stimolano la creatività di commissari e curatori?
Credo che ci sia molto valore nelle mostre dei padiglioni, che sono strettamente connesse (anche se non necessariamente limitate) agli artisti nazionali. A dispetto del grado di globalizzazione del mondo dell’arte, gli artisti e le loro opere provengono infatti da luoghi specifici e da particolari background con peculiari interessi. Le presentazioni nazionali sottolineano molti aspetti di queste specificità, compreso come queste vengono percepite a livello internazionale. I padiglioni nazionali portano inoltre a Venezia molte opere interessanti, a volte sorprendenti, che non potrebbero essere viste altrimenti.
Le opere più interessanti un secolo fa si vedevano ai Salon des Refusés, ma lo diciamo col senno di poi. A tuo parere fra un secolo penseremo che le varie Manifesta, Documenta, Biennali avevano esposto quelli che verranno considerati, un domani, pompier?
Come queste mostre verranno considerate tra un centinaio di anni, solo la storia potrà dirlo. Il mio obiettivo è stato quello di selezionare le esposizioni più rilevanti, quelle che valeva la pena di documentare. Alcune mostre hanno segnato momenti di svolta e innovazione nella pratica curatoriale; altre hanno ospitato opere provocatorie all’interno di determinati contesti politici; molte hanno rappresentato un importante momento di sviluppo nella storia culturale del periodo in cui si sono svolte.
Il rallentamento dei lavori nella stesura del secondo volume del tuo libro è dovuto a normali questioni editoriali oppure il lavoro si è rivelato più complesso di quello che pensavi?
È stato un progetto molto complesso, che ha richiesto una vasta ricerca per trovare tante immagini e testi sconosciuti, e poi ottenere il permesso di pubblicarli. Ecco perché ha richiesto molto più tempo del previsto.
Nel grande affresco che hai ricomposto, quali sono stati a tuo parere i momenti salienti, nevralgici, nella storia della Biennale di Venezia?
Solo per citare alcuni momenti storici della Biennale: l’elegantissima mostra di Gustav Klimt nel 1910, la famosa assegnazione del premio per il miglior artista nazionale a Robert Rauschenberg nel 1964, la creazione nel 1980 della sezione Aperto dedicata agli artisti emergenti, e la Biennale del 2003, quando Francesco Bonami delegò ad altri la curatela della sua mostra.
Santa Nastro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
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