C’era una volta un piccolo naviglio… La Biennale secondo Marco Senaldi
Si fa davvero fatica a credere a Massimiliano Gioni, quando afferma che la sua Biennale emerge come “una costruzione complessa ma fragile, un’architettura del pensiero tanto fantastica quanto delirante”. Si fa fatica perché, di fronte all’allestimento immacolato, al numero degli artisti messi in campo, alla potente macchina mediatica e di intrattenimento che coinvolge tutta la città, ma anche una nazione intera, parlare di fragilità e di delirio sa un pochino di presa in giro.
Una visita coscienziosa al Padiglione Centrale ai Giardini e all’Arsenale conferma l’idea: l’architettura (non del pensiero ma) espositiva di questa 55. Biennale è tutt’altro che fragile, anzi, il suo enorme corpo tirato a lucido somiglia a uno di quegli yacht giganteschi parcheggiati davanti ai Giardini. Imbarcazioni che definire lussuose sarebbe riduttivo: megaville acquatiche dotate di raffinatezze sublimi e insieme esempi di design avveniristico, capaci di andare per mare meglio di una nave da crociera, utili però soprattutto a stordire i passanti e a rimanere ormeggiate per ospitare party assolutamente esclusivi.
Così va per questa mostra. La profusione di bacheche perfette, il display ineccepibile del Libro Rosso di Jung, la sfilza di sale patinate come living room da rivista sembra dire: ecco qui i disegni di un outsider, là l’opera del giovane e sconosciuto artista, di fronte le tele del maestro riscoperto, didietro quelle del genio incompreso…: tutto però incorniciato perfettamente dentro gli schemi nella miglior tradizione curatoriale.
All’Arsenale poi la cosa diventa conclamata: l’architetto ha letteralmente ribaltato il senso dello spazio che tutti conoscevamo trasformandolo in una serie di spazi asettici dal perfetto aplomb museale. Dei begli spazi preindustriali un po’ shabby, con la polvere centenaria dei vecchi mattoni d’argilla non è rimasto niente, e in certi momenti ti sembra di stare alla Gare d’Orsay, o magari in un’altra sede (quale?) di Gagosian. È piuttosto evidente che anche il disegno più irriverente del più incallito carcerato, lo scarabocchio del paranoico ossessivo, la statuaccia abborracciata del semplice incapace, messi in bella luce, sotto vetro o sopra un candido plinto, fanno pur sempre la loro degna figura.
Si potrebbe tranquillamente rispondere che “è così che bisogna fare”, però lasciatemi dire che, in un’Italia dove la gente butta i bambini dal balcone e si dà fuoco come Ian Palach non per un’ideologia, ma per poche migliaia di euro, un tale sfarzo, insieme dispendioso e sovranamente indifferente a tutto, fa una certa impressione. In questa città mezza moribonda, che però riesce a sperperare cifre da capogiro per una diga nata già vecchia e comunque incapace di fermare il montare della marea che sarà destinata a sommergerla, questa mostra sembra arrivare come lo schiaffo finale, il pugno destinato ad affondarla, tanto poi il circo che l’ha resa possibile non avrà che da scegliersi un’altra location, e chi s’è visto s’è visto. Appunto come uno yacht intestato a una società fantasma, battente una bandiera sconosciuta. E a chi viene a raccontare che sono proprio manifestazioni come questa che salveranno Venezia e l’Italia col loro “numero sempre crescente” di visitatori, bisogna pur avere la forza di rispondere che no, che i numeri sono e restano numeri, ma che nella cultura vale di più il senso di una cosa che la sua quantità – e il senso qui è uno solo: il potere del capitale nella sua fase sublime (per intenderci, quella in cui alla “semplice” compravendita di titoli tossici subentra l’acquisto dell’“opera”–performance fatta di niente, ma pagata a carissimo prezzo, l’autentico “nulla sotto forma di qualcosa”).
E con una critica materialista di un tale stampo, anche questo episodio potrebbe essere effettivamente liquidato. Sennonché, anche una considerazione estrema di questo genere sembra di quelle che si fanno di fronte al metaforico yacht: sì, è ingiusto che tanta ricchezza si concentri in così poche mani, e dia vita a mostri tecnologici insostenibili e insieme simboli del privilegio e della sopraffazione, però… Però, è anche innegabile che lo yacht, visto da sotto, con l’ala candida del suo scafo e il design eccelso della sua chiglia, è proprio bello. In altri termini, è quello che ti dicono in tanti, quando provi a criticare questa Biennale: magari puoi non essere d’accordo con le scelte fatte, magari può non piacerti il profumo di establishment che emana, ma il rigore espositivo, quello è indiscutibile.
Allora, proviamo a verificarlo più da vicino questo rigore espositivo. Le descrizioni biografiche sia degli outsider che degli insider sono piacevoli e ben scritte – ed è difficile non farsi distrarre dalla storia del mentecatto che a nove anni ha ricevuto in dono il primo pastello della sua vita, e poi ha riempito casse di disegni, o dalla vicenda della massaia che ha iniziato a sentire le voci dei suoi avi egizi, e ha edificato una piramide in miniatura, eccetera eccetera. Ma non dimenticate che, in questi casi, la cosa più importante da leggere, invece, sono i courtesy. Se ci fate caso, vedete tornare un po’ sempre gli stessi nomi, Collezione Agnelli, Hauser & Wirth, Goodman, persino il Folk Art Museum di New York. Insomma: gli insider sono lì sic et simpliciter perché sono le bluechip del sistema. E va anche bene. Ma i tanto celebrati outsider? Marino Auriti sarà anche uno sconosciuto al mondo dell’arte, ma agli amanti dell’eccentrico è certo ben noto, tant’è vero che la sua opera stava al Folk Art Museum dal 2004, insieme a quelle di tanti altri irregolari, sedicenti artisti, stravaganti d’ogni sorta e originali a modo loro. Insomma, per essere degli irregolari, neanche questi outsider sono messi male: non ce n’è uno che non abbia alle spalle la sua bella Foundation. Del resto, negli Usa l’eccentricità è un costume nazionale talmente diffuso che il canale TLC (Discovery) già gli dedica la serie reality My Crazy Obsession; se la novità di Palazzo Enciclopedico sono i disegni degli Shaker, allora bisogna anche aggiungere che riescono a fare notizia giusto da noi, in America sono all’ordine del giorno.
Se poi consideriamo che i punti di forza della mostra sono non uno (il Palazzo Enciclopedico), ma ben due (il secondo è il Libro Rosso di Jung), allora le cose si complicano davvero. Auriti era un pensionato che non ci ha lasciato altro che la sua stravagante cattedrale in miniatura, Jung avrà anche dipinto solo per sé il suo manoscritto, ma la sua fama è legata ai suoi studi e alla geniale revisione della psicoanalisi. Tra le due figure non c’è alcun legame (se non magari quello che ci potrebbe essere tra un analista e un suo potenziale paziente). E se vogliamo tornare indietro nel tempo, non va meglio: il Palazzo Enciclopedico non c’entra un bel niente col cinquecentesco Teatro della Memoria di Giulio Camillo: il primo è frutto di un’ossessione del tutto personale, il secondo (come spiegava la Yates) uno dei primi tentativi di sistematizzare il sapere, misurandosi con una secolare cultura condivisa. Non è per caso che l’Atlas Mnemosyne di Aby Warburg, che pure fece quasi dannare il suo inventore, non si trova al Folk Museum, ma invece è studiato quale autentico modello di approccio alla cultura delle immagini, come sa chiunque abbia letto un paio di pagine di Didi-Huberman.
L’imponente yacht espositivo, per quanto brillante, nasconde una crepa proprio nel mezzo: sarà anche bello da guardare, ma è meglio se resta fermo in Laguna, se no, per quanto grande, rischia di fare naufragio come il piccolo naviglio della favola.
Marco Senaldi
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