Spiritualità e utopia. La Biennale secondo Martina Cavallarin
È possibile ripartire da un’utopia? Utopia è una parola difficile e pericolosa, un territorio in cui si eliminano le differenze, si omologano le cose. Ma questo perché per troppo tempo si è pensato alle grandi utopie; a me piace pensare di tornare alla misura d’uomo, quella che poi riconosco come misura massima, XXL, che può generare il cortocircuito e alimentare la velocità intesa come velocità della mente e profondità del pensiero.
Per questa esposizione universale Massimiliano Gioni è partito da un’utopia, un progetto mai realizzato dall’artista autodidatta Marino Auriti che nel 1955 depositò, presso l’ufficio brevetti statunitense, il progetto per costruire un edificio di 136 piani, alto 700 metri, per un’estensione di 16 isolati a Washington. Da quest’idea mai realizzata prende titolo la Biennale, Il Palazzo Enciclopedico, titolo che è un concetto esistente, non una fantasia come Gioni ha tenuto a sottolineare, e che ha srotolato evolvendo un processo a mio parere studiato con cura e raffinata intelligenza concettuale.
Percorrendo le Corderie dell’Arsenale ed esplorando con bulimia il Padiglione delle Esposizioni dei Giardini, il tempio del curatore incaricato, il mistero si manifesta con la presenza del Libro Rosso di Jung. posto al centro della sala centrale. Dice Gioni: “Oggi, alle prese con il diluvio dell’informazione, questi tentativi di strutturare la conoscenza in sistemi omnicomprensivi ci appaiono ancora più necessari e ancora più disperati […] La 55. Esposizione Internazionale d’Arte indaga queste fughe dell’immaginazione in una mostra che – come il Palazzo Enciclopedico di Auriti – combina opere d’arte contemporanea e reperti storici, oggetti trovati e artefatti”. Il tentativo è la catalogazione del sapere, la mappatura di universi invasivi e invadenti, esagerati e smisurati, dove multidisciplinarietà e metalinguaggi sono insiti nella struttura espositiva per una declinazione costante di sintetizzazione delle cose del mondo, o meglio dei mondi.
In tale progetto l’analisi si realizza tra privato e pubblico, personale e universale per un’arte relazionale alle prese con sociale e quotidiano, dentro e fuori un’indagine antropologica prima ancora che artistica. Una rivelazione spuria difficile da strutturare, curiosa da vedere. E ciò che ho visto è stata una densità del “saper fare”, una serie di lavori a intensa temperatura progettuale, indipendenti e compartimentati in stanze personali, concettuali ma densi, saturi di atmosfere ad alta concentrazione d’anima, il più delle volte comunicativi per linguaggio, supporto o struttura formale, spesso elaborati con matita e pennello prima ancora che impostati sulla meccanica bulimica di costruzioni atrofiche.
Ed è in questo spazio che molto sapora di carta, olio, grafite, materie plastiche, in questo spazio innesto il mio pensiero rivolto alla capacità e necessità artistica, all’auspicabile scomparsa d’installazioni macro e confuse. Ce lo dimostra bene l’artista sino-americana Sarah Sze come la sua installazione organica, antigravitazionale, disorientante, decontestualizzata, scientifica, da archivistica del quotidiano sia pratica difficile, ma che lei realizza con talento e magia creatrice. Se la Biennale 2013 attiva “un’indagine sul dominio dell’immaginario e sulle funzioni dell’immaginazione”, rifacendosi a quello che lo studioso Hans Belting ha definito una “antropologia delle immagini”, la domanda instillata pone l’accento su quale sia lo spazio concesso all’immaginazione in un’epoca assediata dalle immagini esteriori, un arco storico che Jean Baudrillard nel testo La sparizione dell’arte sostiene forse essere al “grado Xerox della cultura”.
Guardando a tanta arte e a tanti artisti può sembrare che lo spazio si sia fatto piccolo e angusto e che l’interstizio della soglia delle possibilità conceda troppo alla ferita da cauterizzare con la temperatura liquida dell’arte. Ma l’arte possiede l’arma dell’impertinenza: sfuggente, endemica e fisiologica, difficile e incatalogabile, l’impertinenza è l’opera d’arte, e questa fa la differenza, a mio avviso, ancora una volta. Nella vicinanza tra positivo e negativo di nietzschiana memoria, solo per poco tale intensità determinata dal sovraccarico d’immagini può apparire una minaccia; occorre ripristinare un disordine che è solo denuncia di un altro ordine e di un’altra natura, smascherando tutto ciò che è formale, dichiarato, corretto, stabilito. In quest’universo a clima incostante a mio avviso Gioni ha lanciato il messaggio di cui abbiamo bisogno oggi: cultura, costruzione processuale, team preparati e intelligenti, richiamo all’arte con la A maiuscola proprio passando attraverso outsiders non istituzionalizzati al loro tempo, ma ossessivi e concentrati. Walter Benjamin: “La noia è l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza”.
Mi torna in mente il libro del 2006, The Sight of Death, in cui T.J. Clark parla del suo rifiuto verso i media che affonda in una prolungata esplorazione e rivisitazione di un paio di dipinti di Poussin che egli cerca di vedere e rivedere in tutta la complessità della loro risonanza compositiva. Clark si chiedeva come potesse funzionare la nostra comprensione di un cambiamento d’immagine nel tempo.
A Venezia ho visto un’idea, idea disegnata dal progetto del Palazzo Enciclopedico ed esplosa nelle opere della maggior parte degli artisti invitati, ovvero quella di tornare all’utopia del segno con un innesto allargato e chirurgico di trascendenza che abiliti all’incidente e all’inciampo della creazione, con spiritualità da rintracciare, illuminare e rimettere al centro della mappatura antropologica, culturale e sociale del cammino dell’uomo.
Penso all’inclinazione che l’artista, ciascun artista che in quanto tale vive in crescita e sperimentazione, può dare affinché la sapienza compositiva e creatrice si articolino attraverso una rete salda di cultura, anima e conoscenza in cui la difformità crea il suo scarto evidenziando l’opera, l’impertinenza, una necessità strutturale che è la più straordinaria delle imperfezioni possibili, è arte e vita insieme.
Martina Cavallarin
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