Galleristi in & out. Gli immigrati
Fare galleria in Italia è sempre più difficile? Parte su Artribune Magazine una inchiesta per raccontare cosa succede qui e cosa succede fuori. Interrogandone “all'inverso” i protagonisti. La prima puntata mette sotto la lente coloro i quali hanno scelto di lasciare il proprio Paese per venire in Italia. Ecco cosa ne è emerso.
Il mercato in Italia langue. I collezionisti sono più cauti nel comprare. Oggi chi compra preferisce portarsi a casa nomi “estabilished”, magari morti, perché sono un investimento sicuro. Se comprano un emergente, lo fanno con il cuore. E l’Iva? Non ne parliamo. Questo 21% danneggia il mercato. E siamo tra i pochi in Europa a essere messi così. D’altra parte, le istituzioni non aiutano e ora, ora ci si sono messe pure le elezioni e la conseguente incertezza politica… Caro mio, che disastro!
Quante volte, negli ultimi mesi, a una inaugurazione, a una cena, a un aperitivo d’arte abbiamo sentito queste (e altre) riflessioni? Tutto vero? Forse sì, forse no. Ma forse è anche vero che in Italia, come sempre, come in qualunque campo della vita sociale, culturale e politica, non c’è mai un’unica verità. Negare la crisi, dunque, sarebbe un errore, ma innalzarla a unico credo sarebbe altresì poco obiettivo. Nel nostro Paese, ad esempio, in tema di gallerie d’arte, ci sono stati quaranta operatori (forse di più) che solo nel 2012 hanno chiuso i battenti, ci sono stati coloro che hanno deciso di andare all’estero (anche due volte: Mario Mazzoli ha aperto a Berlino e ora, la seconda sede, ad aprile la inaugura a Bruxelles), ma anche coloro che dal 2005 a oggi hanno voluto investire nelle nostre città – con una concentrazione più alta negli hub di Roma e Milano e una certa attenzione ai luoghi frequentati da un turismo di alto livello – e vivere qui. Questa inchiesta vuole capire perché si viene in Italia e perché si va via dall’Italia. Attraverso le parole di chi ha compiuto questa scelta.
La parte del “veterano”, in questa prima puntata, la fa Federico Luger, venezuelano d’origine ma nato in Italia, è ritornato nel 2002 e ha aperto la galleria nel 2005. La sua scelta, più che dettata da una fredda strategia di mercato, aveva un che di necessario. Racconta, infatti, di essere uscito dal Venezuela “dopo le sommosse dell’11 aprile del 2002 a Caracas. Ero tra i manifestanti, tanti assassinati… tanti morti. Un inferno, per dirla in poche parole. È stato un giorno molto difficile. Ci sparavano. Dopo un colpo di Stato, un altro golpe. Sono fortunato a essere vivo. C’è gente che non crede alla fortuna. Io sì”. La scelta di diventare gallerista non è immediata. “A Caracas facevo l’artista e organizzavo molte mostre. Quando sono arrivato in Europa, non sapevo come cominciare. Così ho deciso di aprire uno spazio, forse il più modesto spazio d’arte a Milano finora mai visto. Ho aperto la partita Iva e ho subito iniziato a fare mostre e fiere. Mi sembrava più semplice interagire con il mondo da ‘questa parte’. Successivamente ho conosciuto Django Hernandez e Igor Eskinja, che sono stati fondamentali per la galleria. Senza di loro sarebbe stato impossibile”.
Per Nadia Stepanova di Glance (Torino) la scelta di aprire nel 2006 in Italia è stata piuttosto consequenziale: “Vivo in Italia dal 1993 ed era logico per me aprire la galleria qui e non altrove”, spiega. Entrambi hanno trascorso molto tempo in Italia, entrambi, pur essendo sostanzialmente contenti della loro esperienza, hanno cominciato però a buttare un occhio oltre confine. “La galleria la rifarei con più cervello e meno cuore… Comunque sono felicissimo del mio percorso: adesso ho 33 anni e penso di aver fatto una buona palestra nel mondo dell’arte”, spiega Luger. “Un altro spazio fuori dall’Italia? Magari un giorno, però non credo di poter tornare a Caracas”. Diversamente, la Stepanova guarda con ragioni anche pratiche a ciò che conosce meglio e che a suo parere sembra emergere in modalità interessanti. “Dal 2008 la congiuntura economica internazionale negativa ha penalizzato notevolmente il mercato dell’arte in Italia”, spiega. “Ma mentre nel 2011 avevamo visto i primi deboli segni di ripresa, nel 2012 il Governo Monti ha peggiorato drasticamente la situazione. In questo momento, se dovessi pensare di aprire una nuova galleria in Italia, non lo farei. Invece considero con molta attenzione l’apertura di un nuovo spazio a Mosca, la mia città natale, dove vedo che la situazione è migliore di quella italiana”.
A Milano abbiamo scambiato due impressioni con Annette Hoffmann, international director di Lisson Gallery, che così ci ha raccontato il “trasloco” in città nel 2011 e le sue motivazioni: “La decisione che ci ha portati a questo passo è stata ispirata da molteplici ragioni, come il legame particolarmente forte che la galleria ha stretto in oltre 45 anni di attività con importanti collezionisti e musei in Italia, e la particolare vicinanza della città alla Svizzera, alla Germania e alla Francia. Inoltre, Milano ha una dimensione europea ed è già palcoscenico internazionale per il design e la moda e si sta affacciando con sempre maggiore slancio sulla scena internazionale dell’arte contemporanea. È un progetto nel quale abbiamo creduto e ancora ci crediamo”.
Concorda Edward Cutler, della galleria omonima, inaugurata anch’essa nel 2011, il quale parla di una città aperta, con la giusta atmosfera: “A Milano ho trovato le condizioni giuste per aprire la mia galleria, continuando a lavorare insieme a mio fratello John Martin a Londra e con Marc de Puechredon a Basilea. Devo ammettere, però, che non è certamente un posto semplice per condurre affari da straniero, specialmente quando sei abituato a lavorare a Londra. Molti italiani mi giudicano un pazzo per aver lasciato l’Inghilterra, ma credo che in Italia ci sia un ottimo pubblico e potenzialmente un ottimo mercato. Sono fermamente convinto che qui ci sia spazio per gallerie dal respiro internazionale”.
Chiude il cerchio James Gardner di Frutta Gallery, arrivato nella Capitale dalla Scozia solo nel 2012 (dopo alcuni mesi di ricerca dello spazio) e dalle cui parole emerge grande entusiasmo per essere in un contesto “in cui l’arte contemporanea galleggia nel patrimonio storico in un modo che le è totalmente proprio. È impossibile paragonare Roma a qualsiasi altra città. Come qualsiasi altra città, ha una sua storia, ma probabilmente il fascino dell’arte qui emerge comparativamente molto di più rispetto a molti altri posti. Camminando per Roma si respira tanta bella arte storica, che rende solo più interessante esaltare la presenza di quella contemporanea in città”.
Ciò che emerge inoltre dalle loro dichiarazioni è l’alta qualità dell’identikit del collezionista italiano: colto, interessato, di buon gusto, presta grande attenzione a ciò che compra, ma lo fa con slancio e passione. Ed effettivamente questo corrisponde al vero. Quando in Italia i musei d’arte contemporanea erano solo una chimera, quando ancora non c’era nessun tessuto istituzionale che portasse avanti ricerche in progress, quando la “storicizzazione” avveniva con gran ritardo, in Italia erano i privati a mandare avanti la sperimentazione, dalle gallerie d’arte ai collezionisti. Ancora oggi alcune collezioni private costituiscono tra i racconti più esaustivi della storia dell’arte contemporanea. La Hoffmann, ad esempio, commentando i punti di forza del mercato nostrano, pone l’accento sul collezionismo e sulla comunità che si è creata in città attorno alla galleria: “Lisson fonda su un punto essenziale la propria filosofia: la ricerca e la sperimentazione di percorsi sempre nuovi. L’apertura di Milano ha confermato questo spirito e la risposta che abbiamo avuto premia la decisione. In Italia c’è un collezionismo maturo, consapevole, appassionato e motivato, e la cosa che ci ha fatto più piacere è stato vedere che anche in un momento di grande difficoltà generalizzata perdura l’attenzione e l’interesse verso le proposte di qualità. Si compra quantitativamente meno, ma si compra qualità. Siamo anche felici”, continua, “che la nostra galleria sia stata sin da subito accolta nel tessuto culturale della città, al punto che da noi si viene anche solo per il piacere di vedere e respirare l’arte”.
Un’esperienza diversa è invece quella di Louise Alexander Gallery di Porto Cervo, città che si rivolge a un pubblico abituato a confrontarsi con il settore del lusso e desideroso di aprirsi sempre di più ad iniziative di carattere culturale. “Abbiamo saputo”, ci spiega Frederic Arnal, “dell’esistenza del progetto Promenade du Port, concepito per fungere da hub per l’arte, il design, la cultura, il food e la moda, e abbiamo pensato che fosse una interessante opportunità parteciparvi. Il bello di essere a Porto Cervo è che è un ambiente ideale per incontrare i clienti. I rapporti si costruiscono in un’atmosfera rilassata e felice, nella quale presentare opere di artisti italiani e internazionali”.
Ovviamente, non bisogna dimenticare che siamo nel mezzo di una delle più gravi crisi economiche della storia, da cui il nostro Paese non è certo immune. Quando chiediamo, a questo proposito, a monsieur Arnal quali sono i punti di forza e le criticità e come il contesto si sia sviluppato nel tempo, ci spiega che la situazione economica italiana ed europea ha creato di conseguenza una certa “instabilità nei consumi, con gli artisti italiani e francesi spesso noti solo nei loro Paesi di residenza. Il fatto che non siano noti a livello internazionale comporta dei limiti sia in termini di prezzo di mercato sia di pubblico. Grazie alla posizione della galleria e alla sua clientela internazionale, i nostri sforzi sono concentrati sul portare i nostri artisti alla ribalta del mercato dell’arte, accrescendo il loro status internazionale”.
Diversamente Edward Cutler – pur non nascondendo le criticità, innanzitutto legate alla pressione fiscale sulle opere d’arte e all’Iva, che pone a suo parere l’Italia in una posizione di svantaggio rispetto a città come New York, Berlino, Londra, Parigi o Zurigo – pone al centro il tema generazionale, cruciale nel dibattito contemporaneo: “In Italia mancano creatività, ripresa e progresso perché i giovani tra i 20 e 30 anni sono esclusi dalle opportunità professionali. È malsano trattare i quarantenni come bambini e detesto che, a 31 anni, mi si continui a chiamare ‘giovanissimo’. L’esodo all’estero dei giovani comporta che il resto del mondo benefici del miglior talento italiano, con il risultato che qui il Paese stagna”. E prosegue: “Avverto, fra i miei coetanei e non, un sentimento di rassegnazione rispetto a ciò che potrebbe cambiare o migliorare. Ciò si riflette nella società italiana e soprattutto in quella misera soap opera senza fine che è la politica. Il piacere che traggo dal vivere in questo luogo così incredibilmente bello e ricco di storia, fra gente talentuosa ed entusiasta, conforta le numerose frustrazioni. È però evidente che qualcosa deve cambiare. Altrimenti l’Italia non rimarrà famosa che per le sue esportazioni. E il Bunga-Bunga”.
Santa Nastro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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