Elogio dell’educazione creativa. Un dialogo con Chiara Guidi (I)
Chiara Guidi vuol dire Socìetas Raffaello Sanzio. Ma anche “Puerilia. Festival di puericultura teatrale”. Un unicum nel nostro Paese, senza banalizzazioni per l’infanzia. Una riflessione su teatro e “didattica” in questo dialogo in due parti.
“Giocavo con una grande serietà, a un certo punto i miei giochi li hanno chiamati arte”. Maria Lai offre ancora limpide tracce di una ricerca che, al limite del gioco (e alla ricerca dell’infanzia perduta), pone l’arte come un mistero ludico utile a far conoscenza del mondo. Si tratta di uno spazio attraverso il quale il bambino collega “gli oggetti e le situazioni da lui immaginati alle cose visibili e tangibili del mondo reale” (Freud). A un tessuto creativo – a una visione sussidiaria – che tocca le cose della vita per comprenderle nel loro manifestarsi. Ma anche per entrare in un panorama conoscitivo, quello di Puerilia. Festival di puericultura teatrale, che pone al centro del discorso la didattica come forma di educazione privilegiata e come evoluzione culturale dell’umanità. Ne abbiamo parlato con Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio.
Puerilia. Festival di puericultura teatrale è giunto, nell’aprile 2013, al suo terzo appuntamento. Per questa terza tappa hai scelto di montare il discorso su un asse che vede “artisti e bambini insieme dentro il cerchio della creazione”. Da quale riflessione nasce questo nuovo viaggio?
È raro che i bambini siano fisicamente presenti nello spazio dove si parla di loro, non tanto per la difficoltà di intendere i concetti che vengono espressi dagli adulti, ma perché lì, in quello spazio, li differenzia il modo di vedere le parole. Noi, ad esempio, quando parliamo non forziamo mai la forma del linguaggio. Credo, invece, che per i bambini le parole siano un corpo, non un concetto, e le sillabe fiù, tà, tr, br, sci, sce, glu, non solo bruciano, tremano e si spostano, ma, come immagini sonore, ogni volta che vengono pronunciate, cambiano e non producono mai la stessa emozione. Non sono mai la stessa cosa. Non ripetono mai lo stesso gesto.
E dunque se anche noi riuscissimo a vedere le figure che le parole generano? Se per farlo chiedessimo aiuto alla poesia? Se riuscissimo a vedere la ricchissima potenzialità raffigurativa dei fonemi e delle sillabe? Cosa succederebbe? Il teatro aprirebbe la sua pancia e lì, nel suo ventre, tra adulto e bambino nascerebbe una tensione capace di creare una relazione, ma senza unione, necessaria per scoprire che solo una differenza fondante permette di parlare di loro, con loro.
Queste considerazioni come si coniugano con Puerilia?
Puerilia affida alle cure della puericultura l’infanzia del teatro, proprio come quando alle origini il silenzio marcava una separazione tra coloro che erano chiamati a vedere (gli adepti) e chi ne era escluso.
Ho sempre coltivato l’idea che per un bambino il teatro debba essere quel luogo nel quale si entra e si esce per fare sempre la stessa azione… e dal quale, quando si esce, non è necessario dire ciò che si è fatto, ascoltato e visto. Perché a teatro ogni volta ciò che si conosce cambia e l’esperienza, anche se sempre uguale a se stessa, diventa ogni volta un’altra esperienza, pur rimettendo in scena sempre la stessa scena. Per questo quando i bambini entrano mi capita di pensare all’antico teatro dei misteri, di cui si conoscono solo vaghe notizie, che l’antichità racchiude. E Puerilia potrebbe diventare un rito di iniziazione all’arte che si concentra sul fare. Che palco e platea si tocchino! E lo sguardo del bambino e di coloro che l’accompagnano fisicamente si sposti e vada vicino all’attore e lo senta respirare, lo veda sudare… Su questi pensieri nasce il laboratorio di Puerilia intitolato Il lavoro dell’attore agli occhi di un bambino.
Ecco l’invito: “Bambino, entro e recito davanti a te! Chissà se riuscirò a sostenere il tuo modo di intendere il silenzio. Non cerco una particolare strategia perché, con te, il più delle volte non serve ragionare. È sempre meglio fare! Prima, però, mi devo armare e vedere se il mio lavoro è esatto nella sua necessità. Non per te, ma per me, anche senza di te. Per essere me prima di incontrare te. Ed essere per te solo quel trisillabo che, sonoramente come un tatatà, esprime, senza nome, tutti i teatri del mondo. Ma non li apre, finché, indipendentemente da me e, soprattutto, io da te, qualcosa succederà, per entrambi”.
La potenza analfabetica della fantasia, un seminario per insegnanti che curi personalmente, pone al centro della riflessione l’urgenza di ritornare a un luogo che scampa dalle costruzioni sociali e dalle macchinazioni della langue (in quanto spazio convenzionale, “insieme di convenzioni necessarie” a detta di de Saussure), per puntare l’indice su un panorama che elogia un territorio incontaminato, quello appunto della prima infanzia. Di un ambiente che “precede la scrittura, perché entra nel mondo dell‘immaginazione utilizzando i sensi”.
Sono partita dalla considerazione che i bambini, pur non sapendo leggere, sanno ricostruire un racconto osservando le immagini del libro. Come se avessero una capacità innata al racconto, al creare relazioni tra le cose, al vedere le cose entrare l’una nell’altra. E noi? Come possiamo noi leggere una storia guardando un’immagine? Possiamo dimenticare l’alfabeto? Diventare non-alfabeti? Non possiamo imitare il potere analfabetico della fantasia dei bambini, eppure l’infanzia ci invita a desiderare ciò che già attende in noi: saper vedere che l’immagine nasconde altro da sé e che supera il significato palese.
Allora perché al suono della prima campanella un maestro non può dire: “Oggi ho immaginato ciò che vi devo insegnare, oppure oggi ho fantasticato oppure ho intuito ciò che vi dirò…?”. Perché, se immagina ciò che dice non è vero? Perché, se lo intuisce non è corretto? Perché, se lo annusa, lo tocca, lo odora, non sa quello che dice? Non lo conosce? Eppure presso gli antichi l’immaginazione ha sempre accompagnato la percezione del reale e ne ha ispirato la conoscenza, mentre ora appare come una forma non esatta. Oggi la fantasia chiede coraggio. Per adottarne l’efficacia occorre piegare lo sguardo, piegare l’orecchio verso l’interno delle cose… perché lì, nel fondo, c’è una preistoria che ci chiama per farsi vedere da noi. Ed ecco che i bambini analfabeti ci guidano nell’ascoltare l’immagine che, come una traccia in silenzio, attende noi.
Presa in sé la realtà è muta, come muti erano i bisonti nelle grotte di Altamira allo sguardo di coloro che li videro la prima volta (e non è un caso che proprio una bambina li vide per la prima volta!). Oggi l’immaginazione chiede coraggio. Ci chiede di mettere in campo una facoltà della conoscenza intuitiva e pre-discorsiva al di sopra del pensiero logico-dialettico. Una conoscenza noetica che annusa e come Argo muove la coda al passaggio di Odisseo. Ma come destarla? Il nostro sguardo cieco di parlanti tiene a freno i sensi? Fa fatica a sentire? Come stimolare, dunque, l’immaginazione? È una domanda che attraversa la storia. Leonardo nel suo Trattato della pittura dà indicazioni pratiche per esercitare l’immaginazione invitando a vedere, nelle macchie d’umidità, battaglie epiche e paesaggi sublimi.
Abbiamo un orecchio interno che si eccita nell’interrogare e s’impenna nel conoscere, si fa impaziente, arde per sapere e per fare. Mette tutto in movimento creando relazioni tra le cose, tra le arti, come fece Robinson Crusoe costretto a dimenticare per rinominare, a diventare analfabeta per trovare riparo e mettersi in salvo sull’isola. Credo che per insegnanti e artisti oggi occorra vigilare sulla forza oltre che sulla forma. E dunque, come nel passato, che il maestro e l’artista si ri-incontrino.
Questo appuntamento sulla potenza analfabetica ricorda molto la linea metodologica seguita da Bruno Munari. Una linea legata a laboratori e a libri brillanti che evitano la scrittura per addentrarsi in un territorio sinopsistico, in una conoscenza che il bambino acquisisce, attraverso gli oggetti, per comprendere il mondo. È plausibile il paragone con Munari?
Munari ha osservato da vicino i bambini e si è accorto di come costoro entrano nelle immagini con tutto il corpo. Si tuffano nel vuoto che la figura crea per ospitarli. La stessa cosa avviene con gli oggetti. Senza ordine o successione. L’oggetto si ritrae e dentro vi cade il bambino e il bambino si allarga e dentro vi entra l’oggetto. Tuffi multipli. Tanti contemporaneamente, senza una logica apparente, perché il senso di ciò che accade sarà il frutto dell’esperienza che arriva sempre dopo, non prima. Non si può ragionare mentre si fanno i tuffi.
Vedere un’immagine per un bambino è fare un’esperienza tangibile. Senza un utile immediato. E mentre in quell’immagine lui entra, anche lei, l’immagine, lo fa. Per puro piacere. E si deposita sul fondo.
Antonello Tolve
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