Tra i vari appuntamenti di Puerilia c’è anche Il lavoro dell‘attore agli occhi di un bambino. Come si configura questa azione educativa?
L’incontro tra bambini e attori crea uno spazio in tensione, che nessuna sintesi può risolvere. La forza magnetica la devo portare io. Per tentativi. Attraverso metafore e analogie che quando sono ben collocate abbreviano la distanza, ma senza colmarla. E qualcosa nasce e rinasce e si forma e riforma, nel ritmo incessante delle trasformazioni.
L’anno scorso, nel 2012, la seconda edizione di Puerilia aveva incontrato le insegnanti intorno alla questione del Potere analogico della bellezza. Quando pensai al titolo non sapevo cosa in realtà quel titolo nascondesse. Finché un giorno scopro che Platone aveva definito l’analogia come il più bello di tutti i legami. Ecco come si configura l’azione del lavoro dell’attore davanti ad un bambino: guardarsi senza nessuna pretesa di assomigliarsi, per generare uno sguardo in tensione che possa generare bellezza. Da entrambe le parti.
Accanto a una serie di laboratori, Puerilia propone anche delle rappresentazioni che investigano la sfera infantile da angolazioni differenti. Quale apporto offrono questi spettacoli al paesaggio intellettuale del bambino?
Puerilia si presenta come un festival ma, in realtà, è prima di tutto uno spazio dove ogni cosa che accade deve mettere in moto quella figura che precede il pensiero o, per meglio dire, quella visione che è pensiero in movimento. Puerilia sono giornate di azioni che pensano il teatro attraverso l’infanzia. I bambini stanno davanti e gli adulti dietro, in modo tale che lo sguardo sia continuamente attraversato dal bambino, che come un cristallino trattiene e sovrappone le immagini svanite a quelle nuove che sopraggiungono.
Nel repertorio del teatro di ricerca concentro la mia attenzione e scelgo opere e artisti disposti a ridestare, attraverso i bambini e i loro parenti (che spesso non sanno neppure che esiste un teatro che si chiama di ricerca) altri dettagli di opere già a lungo replicate. Con gli artisti invitati ogni volta si apre un dialogo sull’atto di creazione e sulla logica della sensazione che la presenza particolare del pubblico di Puerilia rende interessante e complesso. Quindi gli spettacoli non sono quelli che solitamente rientrano nel teatro per l’infanzia (sempre che questo tipo di teatro possa essere un genere e garantire di per sé ciò che è adatto e non lo è). Sono, invece, spettacoli che ponendo il problema di come camminarvi dentro cercano di apprendere dall’infanzia quella immediata capacità in grado di creare tra una sedia e un cavallo una relazione di tipo analogico, che fa saltare su una groppa e cavalcare nel salotto. Attraverso spettacoli, laboratori, ascolti musicali Puerilia mette in campo una riflessione sul tempo e crea delle situazioni in cui il tempo possa far sentire tutto il suo peso. Vorrei che Puerilia rallentasse il ritmo, azzardasse il silenzio lungo della pausa, bloccasse il gesto e riuscisse a forzare l’attesa. È una sfida che l’arte gioca con la capacità di attenzione della nostra epoca. E ne accetto, rischiando, lo scontro.
C’è una tua riflessione che trovo particolarmente preziosa legata alla fantasia come “forma di conoscenza della realtà”. Possiamo definirla anche un approccio alla vita e, per dirla con Beuys, una educazione alla libertà individuale?
Credo che l’atto di creazione possa essere per tutti una condizione quotidiana del fare e dell’essere e possa garantire un’alleanza paradossale con il caos. Il caos non è un termine negativo ma è nascita e scomparsa con una velocità infinita. Dobbiamo immergerci nel caos, stratificarne le presenze, farle parlare insieme a tal punto che di fronte ai casi della vita il problema non è come liquidarli, sopportarli, risolverli, superarli, ma come reinventarli, cioè immergerli nel caos delle possibilità. Melville diceva: “Amo tutti gli uomini che si immergono”, forse perché quando il capitano Achab emerge i suoi occhi fremono di desiderio. Ma occorre una strategia e io la cerco nella musica. Perché essa, prima di tutto, mi obbliga a rendere l’orecchio più veloce dello sguardo, ad ascoltare ancora prima di capire, a sospendere il significato della parola e la supremazia del testo, a intravedere il fondo “contraddittorio” delle cose senza esprimerlo.
Alle spalle di questa rassegna c’è la tua esperienza della Scuola sperimentale di teatro infantile. Ti andrebbe di esporre i principi guida di questa attività?
La scuola sperimentale di teatro infantile nasce negli Anni Novanta quando occupammo lo spazio che oggi si chiama Teatro Comandini. Era una vecchia scuola professionale e le aule potevano cambiare continuamente aspetto. Per farlo i bambini ci avrebbero potuto aiutare. Per questo li facemmo entrare.
Nella scuola sperimentale di teatro infantile, per un’ora e trenta minuti, tutto era pensato e nulla di impensato poteva spezzare l’illusione che si andava cercando. Dovevamo essere veri e finti fino in fondo, o meglio, così finti da sembrare veri. Io non conoscevo il nome dei bambini che vi partecipavano e quando ne incontravo qualcuno per strada (Cesena è una città con pochi abitanti per cui è facile incontrarsi e riconoscersi) io e i bambini ci guardavamo in silenzio negli occhi e poi abbassavamo lo sguardo, come depositari silenti di un mistero che andava custodito così come accadeva quando, nell’antichità, il teatro dei misteri garantiva nel silenzio la sua forza rituale.
Nei primi due anni la fiaba veniva messa alla prova nel teatro e il teatro trovava il suo linguaggio nella struttura fiabesca. Infine il terzo anno riuscimmo a preparare uno spettacolo completamente astratto, sonoro e lì, nella scrittura dei gesti che i bambini tracciavano si svelarono quei tre anni nascosti, mentre un pulmino ci accompagnò a replicare a Bologna e a Parma.
Jack and the Beanstalk, spettacolo che debutterà in Australia nel 2014, nasce da L’arte del gioco nel recinto del testo fiabesco, un workshop per artisti e bambini presso Campbelltown Arts Center. Ci concedi una piccola anteprima?
Un progetto triennale mi lega all’Australia e alla cultura di quella terra che non è facile riconoscere. Mi sono ritrovata sulla via dei canti che attraversa terre e mari: per la tensione che porto tra infanzia e voce, per il bisogno di legare la terra al canto, per la necessità di veicolare il senso solo con il ritmo, per la volontà di credere che una comunicazione sotterranea ci lega alla realtà e dipende dall’interpretazione, per lo scambio reciproco che passa tra esecutori e pubblico…
Nel 2010 ho lavorato con artisti e bambini australiani mettendo a punto quella che poi è divenuto, quest’anno, in Puerilia, il laboratorio Il lavoro dell’attore agli occhi di un bambino. Nel 2011 ho incominciato la preparazione di Jack and the beanstalk creando un’orchestrazione di suoni, voci, rumori che Jack creava arrampicandosi fino al cielo, per rubare molto lassù e portarlo quaggiù… E infine nel 2014 la fiaba, data per ora al pubblico solo in forma musicale, dovrà diventare, per i bambini che vi entreranno, la prova di un mondo possibile, tra cielo e terra. E il nostro sguardo dovrà andare su mentre migliaia di corde cadranno giù, e poi dovrà scendere giù mentre centinaia di fagioli cercheranno dalla platea di essere lanciati lassù.
Antonello Tolve
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