La corazzata Gagosian a Roma
Ha sedi a New York, Los Angeles, Londra, Parigi, Atene, Ginevra, Hong Kong e, last but not least, Roma. Larry Gagosian è sbarcato ufficialmente a Roma nel 2007 e ha trovato casa per la sua galleria in uno spazio spettacolare, adattato alla sua nuova funzione dal compianto Frouz Galdo. È con la direttrice di Gagosian Rome, Pepi Marchetti Franchi, che abbiamo parlato dell’avventura capitolina.
Il 15 dicembre 2012 si sono celebrati i cinque anni dallo sbarco di Larry Gagosian a Roma. Diciamo subito ciò che mai avresti pensato sarebbe potuto andare per il verso giusto e invece ci è andato e, viceversa, ciò che avresti immaginato veder funzionare meglio.
Cinque anni fa, sorprendendo un po’ tutti, Larry Gagosian inaugurava la sua scommessa su Roma seguendo un desiderio che coltivava già da qualche anno. Per quanto mi riguarda, cominciavo insieme a lui quest’avventura con enorme entusiasmo ma consapevole della grande sfida che avevamo davanti. Dopo cinque anni mi sembra un bel traguardo poter dire che questo progetto si è dimostrato rilevante e sostenibile. Sul fronte di quello che speravo funzionasse meglio, c’è il rapporto con le istituzioni, con le quali desidereremmo collaborare molto di più, come ci capita di fare all’estero.
Oltre venti mostre in cinque anni sono un bel palmares. Lo staff è di buon livello? Sei riuscita a creartelo in questi anni?
Assolutamente sì, sono stata molto fortunata ad aver trovato subito dei collaboratori con una marcia in più. Il nostro successo si fonda al 100% su un lavoro di squadra.
Per realizzare una programmazione così intensa e di alto livello, quanto conta la sinergia con le altre “filiali del gruppo” in giro per il mondo? Con quale altra la galleria di Roma interloquisce maggiormente?
Ci consideriamo una galleria unica con sedi in otto città e un’unica scuderia. La sinergia tra le sedi è il nostro modus operandi e funziona a doppio binario. Ad esempio, la galleria di Roma ha organizzato la mostra di Giuseppe Penone a Londra e collaborato attivamente a quella di Lucio Fontana a New York.
Qual è stata la mostra più difficile da realizzare?
Forse quella di Rachel Feinstein, perché l’uragano Sandy ci ha fatto rischiare di non ricevere le opere in tempo per l’inaugurazione.
Se dovessi raccontare la mostra che ti ha dato più soddisfazione, di quale parleresti? E perché? Vietato rispondere “la prossima”!
È veramente difficile scegliere… Forse, se proprio devo citarne una, direi Walter De Maria, un artista che mi ha stregato fin dalle prime esperienze con le sue opere d’arte ambientale a New York e poi in New Mexico, con il quale non avrei mai sperato di lavorare da vicino.
Una realtà come quella di una galleria Gagosian deve pensare anche e soprattutto a far numeri e fatturato. Le date però ci raccontano di una galleria che è nata negli ultimi giorni del 2007, giusto qualche mese prima della deflagrazione di una profonda crisi finanziaria (e poi economica) nella quale ancora siamo fin troppo immersi. Come hai condotto la nave in mezzo a questi marosi? Non sarà mica che, per un soggetto come voi, la crisi ha anche portato qualche vantaggio?
Senza nulla togliere all’importanza del ritorno economico, credo che il fatturato sia importante per noi come per chiunque altro voglia costruire un’impresa forte e duratura. Al contrario, potendo contare su delle “spalle grosse”, possiamo permetterci più spesso di fare scelte che non abbiano un preponderante o immediato risultato commerciale. Penso ad esempio alla mostra Made in Italy, con tanti prestiti non in vendita, e alla stessa galleria di Roma, non dettata da una scelta di mercato. Purtroppo, a parte l’averci dato la scusa per un rodaggio più tranquillo, la crisi non credo abbia portato alcun vantaggio. Ricordo comunque che nel 2009, quando a New York le vendite languivano, noi a Roma registravamo il tutto esaurito con Francesco Vezzoli! In generale, come galleria internazionale riusciamo forse a difenderci meglio, potendo beneficiare di orizzonti più globali.
Come è cambiato il mercato italiano in questi cinque anni in cui l’hai osservato dall’interno?
Credo sia diventato più maturo e abituato a standard internazionali, soprattutto dal punto di vista delle regole.
E invece come è cambiata la città di Roma, sia come posto dove vivere che come posto dove lavorare, in questo lustro?
Sostanzialmente non credo sia cambiata. D’altra parte, ho capito che il successo di Roma si fonda proprio sulla sua capacità di rimanere impermeabile a qualsiasi cambiamento!
La galleria ha anche tentato, più volte, e pure riuscendoci, di uscire dai propri spazi e di proporre iniziative per la città e nella città. Ma sembra scontrandosi con le solite assurdità burocratiche. Ci racconti?
Effettivamente è qualcosa che ci piacerebbe fare più spesso, ma le difficoltà burocratiche e organizzative sono un deterrente. L’installazione Room in Rome di Franz West, presentata per un mese a Piazza di Pietra nel 2010, si concretizzò alla fine di un tortuoso percorso. Franz è poi mancato un anno e mezzo dopo e credo che quello sia stato il suo ultimo progetto di arte pubblica. Sono fiera sia stato a Roma e credo gli abbia dato una grande soddisfazione.
In che modo hai portato in una galleria privata, anzi nell’emblema intercontinentale delle gallerie private, il tuo approccio e la tua formazione museale?
L’ambiente dove mi sono formata, il museo americano, ha una vocazione molto imprenditoriale seppure con un indirizzo non profit. Mi sembra in generale che questa esperienza mi aiuti molto nel rapporto con i diversi interlocutori, dagli artisti ai collezionisti ai curatori.
Molti si aspettavano che, dopo l’arrivo di Gagosian, che suggellò un quinquennio d’oro per lo sviluppo dell’arte contemporanea a Roma iniziato nel 2002, sarebbero sbarcate in città molte altre gallerie private. Questo non è successo, a tuo avviso come mai?
Perché continua a volerci una buona dose di coraggio!
Parliamo dello spazio di questa galleria. Come nacque, assieme a Firouz Galdo, l’idea folle di realizzare una galleria d’arte ovale?
Avevo chiesto a Firouz, conosciuto a New York poco prima di trasferirmi, di affiancarmi nella ricerca dello spazio e nella valutazione delle soluzioni che ci venivano proposte. Oltre a essere un architetto di eccezionale talento, Firouz aveva già allora dedicato una buona parte della sua vita professionale alle problematiche dedicate all’esposizione. A lui devo l’intuizione immediata e sicura che quello spazio, di cui – dopo le demolizioni appena avvenute – si vedeva solo un bizzarro accennato ovale, potesse diventare una galleria perfetta. Io dopo nove anni di Guggenheim mi chiedevo invece se le pareti curve non stessero diventando la mia persecuzione! La particolarità di questo spazio e le modalità con le quali Firouz lo ha trasformato in un palcoscenico straordinario, caratterizzato ma flessibile, continuano a essere l’ingrediente fondamentale del nostro successo.
Ma è vero che, per far “esercitare” mentalmente gli artisti su uno spazio così particolare, inviate loro in visione un plastico della galleria?
Assolutamente sì. Qualche tempo fa sono passata a trovare Tatiana Trouvé e ne ho trovato uno in bella mostra nel suo studio.
A proposito di artisti. Qual è il feeling che hanno sulla città di Roma solitamente? Prevale il fascino della storia della città o inficiano anche i problemi, l’incapacità di governare il territorio, la disorganizzazione, l’offerta culturale mal gestita e mal comunicata?
Dalla disorganizzazione li proteggiamo noi, così sono liberi di innamorarsi della città, cosa che puntualmente fanno!
Qual è invece il feeling di Larry Gagosian rispetto alla sua branca capitolina? Cosa dice, cosa ne pensa, quanto peso dà a questa avventura?
La galleria di Roma nasce da un’idea di Larry ed è un progetto la cui concretizzazione gli ha dato notevoli soddisfazioni. Non per niente, tra i primi a esporre a Roma ci sono stati alcuni degli artisti che ammira di più, da Twombly a Serra, da Murakami a Cindy Sherman.
Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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