Furbi esotismi dal Subcontinente
Qual è il segreto dello Studio Mumbai e del suo astuto fondatore? La retorica ambientalista e localista servita in chiave esotica, insieme alla capacità di produrre ottimi edifici che, invece e per fortuna, pescano a piene mani dalla tradizione architettonica occidentale.
Studio Mumbai è stato fondato nel 1995 da Bijoy Jain per divenire presto famoso. Tra il 2007 e il 2008 è stato pubblicato dalle riviste britanniche Wallpaper, AD e The Architectural Review, dalla giapponese A+U e dall’italiana Domus, e sempre nel 2007 è stato invitato dal Victoria & Albert per una mostra dal titolo In Between Architecture. Un successo sancito nel 2011 da un numero monografico della rivista El Croquis, forse la più ambita pubblicazione per un collettivo di progettazione operante a livello internazionale.
Qual è il segreto dello Studio Mumbai e del suo astuto fondatore? La retorica ambientalista e localista servita in chiave esotica, insieme alla capacità di produrre ottimi edifici che, invece e per fortuna, pescano a piene mani dalla tradizione architettonica occidentale e in particolare dalle migliori architetture dell’architettura organica, Frank Lloyd Wright in testa.
Ecco come lo studio si presenta nel suo sito web: “Mumbai è una infrastruttura umana di esperti artigiani e architetti che progetta e costruisce direttamente“, “ispirata dalla realtà“, che mette insieme “abilità tradizionali e tecniche costruttive locali” e utilizza “materiali e intelligenze che nascono da risorse limitate“, naturalmente per “mettere in relazione l’architettura con il paesaggio“, mentre il lavoro è “il prodotto di un dialogo collettivo, una condivisione faccia a faccia per la conoscenza attraverso l’immaginazione, la giusta scala, la modestia“. A suggellare le affermazioni, che cercano di nascondere l’ovvia verità che l’esotico è sempre il frutto della globalizzazione e delle sue strategie di mercato, è il timbro, il logo dello studio, rosso con finta sbavatura d’inchiostro. Una ennesima reinterpretazione colta delle strategie comunicative messe a punto dai negozi di franchising che vendono prodotti bio o, se vogliamo essere meno ingenerosi, dell’approccio radical chic londinese oggi assorbito dai creativi politically correct. Un attento osservatore noterà infatti la cura con la quale Studio Mumbai diffonde le immagini del proprio lavoro, avvalendosi dell’aiuto dei più sofisticati fotografi internazionali, Hélène Binet in testa.
Cosa ci insegna il successo di Studio Mumbai? Che per affermarsi oggi gli architetti devono vendersi come anti-archistar, pitturarsi di verde, usare molto legno, predicare la slow way of living e inventarsi l’architettura vegetariana. Proporre insomma una modernità autocritica, magari con un occhio rivolto al passato, in perfetto stile post-Barilla. E, oltre a essere bravi, venire dalle nazioni emergenti, meglio se l’India o la Cina (l’ultimo Pritzker è andato al cinese Wu Shu, che lavora più o meno – ma con maggiore intelligenza teorica – con gli stessi temi).
Il futuro? Beh, per un po’ è meglio non parlarne. Ripasserà, si spera, a fine crisi.
Luigi Prestinenza Puglisi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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