Pubblicità sessiste. Una battaglia per la dignità: delle donne, ma anche dei creativi
Dopo la campagna dell’ADCI contro la pubblicità sessista, anche un disegno di legge ad hoc. Troppo rigore per nulla? Crociata bigotta o battaglia per la dignità? Certo alzare il livello non farebbe male. Al pubblico ma anche alle agenzie, un po' a corto di idee
Donne che sanno solo stirare, lavare i piatti, fare shopping, con poco cervello e cento altri stereotipi cuciti addosso. Per dire basta all’immagine femminile, che spesso e volentieri la pubblicità ci propina ogni giorno, lo scorso maggio l’Art Directors Club Italiano ha lanciato una campagna contro gli stereotipi della donna nei commercial, nei manifesti e in tutte le altre forme di comunicazione pubblicitaria.
Attraverso quella dose di ironia che in pubblicità non guasta mai, la campagna ci mostra tre grandi donne, distintesi per le loro capacità intellettuali, creative e diplomatiche, alle prese con faccende quotidiane, le stesse in cui vediamo impegnate la maggior parte delle protagoniste sui canali comunicativi di casa nostra. Ecco allora il premio Nobel Rita Levi Montalcini che impasta una torta, Hillary Clinton che lava i vetri di una finestra, Margaret Thatcher che passa la scopa e Frida Kahlo che lavora la maglia. Ad accompagnare ogni ritratto, un testo che recita: “La pubblicità sessista ha idee chiare sull’occupazione femminile”.
Oltre alla campagna, l’Art Directors Club si è fatto portavoce di una petizione (si può firmare online) per dire basta una volta per tutte alla trasandatezza, la sciatteria, la volgarità, la stupidità e il pensiero unico che gli stereotipi di genere veicolano. Cambiare le cose è possibile, afferma l’Adci: “La Risoluzione europea del 3 settembre 2008 ci esorta a farlo. In diversi paesi sono in vigore norme sulla pubblicità sessista. Anche in Italia dobbiamo poterla scoraggiare. Dobbiamo poterla sanzionare in modo più esteso ed energico di quanto avviene ora”.
Una denuncia che per una volta (e meno male) non arriva da gruppi di donne infuriate e armate di slogan femministi, ma dalle stesse persone che la pubblicità la creano ogni giorno, diffondendo non solo la conoscenza di questo o quel prodotto, ma anche culture e modelli sociali in cui la gente, volente o nolente, tende a riconoscersi.
Ma non è finita qui. A distanza di due mesi dal lancio della campagna, sembra che anche la politica voglia impegnarsi concretamente per combattere la pubblicità sessista: cinque senatrici del PD – Silvana Amati, Manuela Granaiola, Daniela Valentini, Francesca Puglisi, Camilla Fabbri, Valeria Fedeli – hanno infatti firmato una proposta di disegno di legge (Misure in materia di contrasto alla discriminazione della donna nelle pubblicità e nei media) che prevede sanzioni (fino a 5 milioni di euro) per l’utilizzo improprio del corpo della donna nella pubblicità televisiva o nella carta stampata. In realtà si tratta sostanzialmente dello stesso disegno presentato nel 2010 da un più nutrito gruppo di senatori, politicamente trasversale, che includeva una trentina di esponenti di Idv (come Giuliana Carlino), Pd (da Tiziano Treu a Franca Biondelli, dalla Granaiola a Mariapia Garavaglia), fino agli autonomisti Manfred Pinzger ed Helga Thaler Ausserhofer e all’ex Msi/Pdl, poi Io Sud, Adriana Poli Bortone. Una compagine ampia, per una proposta che non andò mai in porto. E che oggi torna a far discutere, beccandosi anche qualche critica.
Una su tutte quella di Libero, che, sulla scia della militanza della Presidente Laura Boldrini, giudicata spesso stucchevole e di maniera, si scaglia lo scorso 5 luglio contro il redivivo ddl: le “Inquisitrici del Pd”, dipinte come “crocerossine” ed ex sessantottine esagitate, secondo l’articolo di Franco Bechis starebbero cercando di «oscurare, anzi vietare la gnocca». Una norma insomma troppo rigida, che additerebbe come streghe da bruciare in pubblica piazza le Belen o le Letizia Casta di turno, protagoniste di sensuali spot e trasmissioni tv, che ne esaltano beltà, curve e doti seduttive.
Ora, senza rischiare di istituire commissioni bulgare, che abortiscano qualunque utilizzo creativo dell’elemento erotico o qualunque riferimento alla tradizione familiare o di genere, uno strumento di vigilanza potrebbe rivelarsi utile. Fuor di retoriche buoniste e di estremismi censori, però. Se non altro per arginare la diffusa deriva dei facili accostamenti porno-ludici, che atrofizzano l’intelligenza dei creativi nostrani, oltre che la dignità di signore e signorine.
Nello specifico il ddl vieterebbe di usare “l’immagine della donna in modo vessatorio o discriminatorio a fini pubblicitari”, definendo come “sessista” ogni pubblicità che rappresenti la donna “come oggetto di sfruttamento, ovvero in ruoli umilianti e lesivi della propria dignità”, che la avvilisca “verbalmente, visivamente o acusticamente”, che le manchi di rispetto, soprattutto se “in giovane età”, che la renda vittima di “pregiudizio dal punto di vista sessuale”. A tal fine verrebbe istituita una “Commissione per il contrasto alla discriminazione della donna nella pubblicità e nei media”, col compito di “elaborare un codice di autoregolamentazione del settore pubblicitario”, di monitorare, di vigilare, di ricevere segnalazioni e denunce da parte di cittadini o associazioni, di promuovere “un’immagine realistica della donna di oggi” e premiare le campagne che “si allontanano maggiormente dagli stereotipi sessisti”.
Eccessiva o no che sia la proposta specifica, una cosa è certa. Nel nostro Paese le pubblicità di cattivo gusto, con modelli femminili non proprio edificanti o comunque relegati unicamente alla sfera del sesso, abbondano incontrastate. Tra donne oggetto in vendita in mezzo a motorini e iPad, e negozi che promettono di “dartela gratis”, riferendosi alla pizza margherita o alla montatura degli occhiali – sempre con fatalona fissa in primo piano – un esempio estremo è quello del manifesto della Cauldron Impianti: fantastico claim a doppio senso – “Montami a costo zero” – guarnito di signorina discinta in posizione erotica inequivocabile. Azzeccatissimo per vendere pannelli fotovoltaici, come no. E il montaggio gratuito è assicurato.
E di esempi così ce ne sono a iosa, soprattutto a spulciare tra piccole aziende locali tra brand molto pop. Scorrendo random, in una delle sempre piccanti campagne di Silvian Heach c’è lo zampino nientemeno che di Terry Richardson, che con l’intento di vendere abiti immortala una fanciulla nell’atto di sollevarsi la gonna e mostrare al mondo le rotondità posteriori. Che va benissimo, per carità. Ma il senso dov’è? Un gesto che non racconta nulla, che non crea allusioni al di là del più basico degli istinti di possesso: desiderare un marchio, come desiderare un corpo, accostando l’idea del bello a quella del sesso. Equivalenza lineare, che fa appello agli istinti primari e non costruisce alcun livello di senso. Begli gli scatti di Richardson, ma lo sforzo del pubblicitario dove sta?
Stessa solfa per la platinata Paris Hilton, che in uno spot per la Tre del 2007 si esibisce in un “danza” ammiccante, con tacco dieci e abitino trasparente, intorno a una pompa di benzina, maneggiando con abilità il vigoroso tubo, sotto gli occhi del voglioso compagno di viaggio. E dunque? Quel “meglio cambiare” finale, pronunciato dalla bambola svampita con un esotico accento americano, che nesso avrebbe con la scena precedente?
Altra dea dell’Olimpo televisivo, Pamela Anderson, un nome una leggenda (dell’eros): stavolta ci spostiamo all’estero, per una campagna internazionale che recupera il clichè della donna in carriera, bella, bellissima, camicia linda e tailleur nero, con segretaria mora altrettanto avvenente al fianco. Tra sorrisi smaglianti, le due parlano di lavoro a una platea di maschietti incravattati, i quali, però, non trattengono la fantasia: ed ecco le due donne dimenarsi in un onirico tete-à-tete lesbo, tra fiumi lattiginosi che scorrono sui corpi, disturbando la concentrazione dei lavoratori e manipolandone i cervelli. Lo spot, definito “una pubblicità sessista e degradante per le donne” dall’ l’Advertising Standards Authority, è stato bocciato in Inghilterra, avendo avuto già nel 2010 la stressa sorte in Australia. Qual era il prodotto reclamizzato? Il servizio di hosting CrazyDomains. Assolutamente pertinente, non c’è che dire.
Volendo allargare il discorso, e provando a rintracciare possibili conseguenze un po’ più pesanti rispetto al banale involgarimento di massa, la psicoterapeuta e sessuologa Giuliana Proietti mette in guardia dalle colonne dell’Huffington Post e tira fuori il tema violenza e femminicidi: “Ormai appaiono numerose evidenze di una possibile relazione fra l’oggettivazione massiccia del corpo femminile e l’aumento impressionante della violenza contro le donne. Diversi studi mettono infatti direttamente in relazione la violenza sulle donne con la loro deumanizzazione”.
Non un’equazione immediata, certamente, non una causa diretta; ma l’influsso subliminale che questo tipo di bombardamento visivo esercita sullo spettatore medio, esiste. L’immaginario collettivo si costruisce anche così, sedimentando e stratificando concetti, visioni, segni.
Un “no” alla pubblicità (realmente) sessista va dunque dato. La campagna e la petizione dell’Adci, e il disegno di legge proposto recentemente, ci stanno provando. Quello che occorre è, parimenti, una maggiore riflessione critica e autocritica da parte delle aziende di settore e dei creativi, chiamati poi a ideare le campagne. Perchè utile è una legge che metta un freno a certi eccessi diseducativi, ma alla fine quel che serve è il caro, vecchio talento creativo: metterci un’idea, avere coraggio, combinare seduzione e anticonformismo. Con quel pizzico di ironia utile a pungolare i cervelli e a giocare con la realtà. Stereotipi sessuali inclusi.
Gabriele Di Donato, Helga Marsala
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