La verità in pittura. Alla Fondation Maeght
“La questione posta dall’arte, più ancora di quella della bellezza, è la questione della verità”. Con queste parole si apre una lunga lettera di Bernard-Henri Lévy al direttore della Fondazione Maeght di Saint-Paul-de-Vence, Olivier Kaeppelin, che fa da introduzione al catalogo della mostra “Le avventure della verità. Pittura e filosofia: un racconto”. E a raccontare la mostra ci pensa, per Artribune, il filosofo Luca Illetterati.
La mostra di Saint-Paul-de-Vence, tanto suggestiva quanto ambiziosa, vuole essere un itinerario dentro il rapporto fra filosofia e pittura ed è curata dallo stesso Bernard-Henri Lévy, che ha selezionato le opere e le ha organizzate all’interno di sei sezioni, o anche, come preferisce chiamarle Lévy con un linguaggio in qualche modo sacrale nella lettera in cui racconta la genesi della mostra, sei “stazioni”.
“Un racconto”, dice il sottotitolo. Una sorta di racconto è infatti la lettera di Lévy a Kaeppelin, in cui racconta prima della sua realizzazione come vorrebbe organizzare la mostra, quale il suo senso, gli artisti che vorrebbe coinvolgere, il modo in cui intenderebbe organizzare le opere. Un racconto ulteriore, anche appassionante, è quello contenuto negli estratti di diario dello stesso Lévy che seguono la lettera. Partendo dall’agosto del 2011, il narratore racconta le fasi salienti della ideazione, dell’organizzazione, il modo in cui sono state selezionate le opere, il modo in cui sono state ottenute, gli incontri con gli artisti, soprattutto con quelli a cui Lévy ha chiesto di leggere brani di opere filosofiche lasciandosi filmare da lui stesso. E un racconto per molti versi ancora in prima persona è la mostra stessa, nella quale è possibile vedere gli scarti rispetto agli intenti programmatici e dunque le assenze e i guadagni. Una mostra che si sviluppa appunto come una narrazione più che come una “monografia”, come un’avventura più che come un percorso di analisi.
Il tema, infatti, è tale per cui è straordinariamente difficile pensare a qualcosa come a un vincolo oggettivo. Questo non significa che il percorso sia per forza del tutto accidentale, fatto di accostamenti o giustapposizioni. Se così fosse, verrebbe meno il carattere di plot che invece la mostra pretende. L’assenza di un vincolo oggettivo forte e immediatamente riconoscibile implica piuttosto che lo svolgersi dell’itinerario e l’articolarsi della storia pesano tutti sullo sguardo stesso del curatore, sul quale deve reggersi la leggibilità stessa del movimento messo in atto nelle diverse stazioni, l’architettura della costruzione scenica che l’accostamento delle opere rivela.
In questo senso, l’occhio di Lévy si mostra talvolta capace di innescare legami che rivelano effettivamente una loro peculiare cogenza (come nella sezione Tecniche di colpo di Stato, che lavora intorno all’iconografia cristiana e all’idea che il cattolicesimo costituisca quel territorio culturale nel quale, muovendo dalla visione iconoclasta tipica di tutte le grandi religioni monoteistiche, si afferma uno spazio dell’immagine che non per questo implica un’uscita dal sacro). Altre volte i nessi appaiono invece eccessivamente didascalici (come nel caso delle diverse letture della caverna platonica o nella sezione dedicata alla ritrattistica filosofica). Altre volte ancora il curatore propone suggestioni che trovano la loro ragion d’essere tutta nella soggettività che guarda e che commenta nel catalogo le opere non con schede tecniche, ma, appunto, con pensieri, impressioni e riflessioni filosofiche sull’opera. Pensieri e impressioni che talora riescono a produrre un effetto interessante, produttivo e di dialogo fecondo, talaltra fanno rimpiangere le schede magari noiose, ma scientificamente coerenti, dei cataloghi tradizionali.
Avvicinandosi anche solo mentalmente alla mostra viene subito da pensare a un famoso saggio di Jacques Derrida del 1978, La verità in pittura, che prende le mosse dal celebre motto di Cézanne, “Io vi devo la verità in pittura e ve la dirò”, motto che fa da orizzonte di sfondo anche del discorso di Lévy. In quel testo, però, Derrida si rivolgeva criticamente, da un lato al filosofo Martin Heidegger, e dall’altro allo storico dell’arte Meyer Shapiro per la loro pretesa, opposta nei contenuti, ma nel fondo e nella postura dello stesso tipo, di appropriarsi della verità della pittura, dell’evento della verità in pittura. Una verità che è invece, se mai c’è, secondo Derrida, una verità irriducibile sia alla dimensione della speculazione come anche a quella storico-filologica. L’oggetto della contesa a distanza fra Heidegger e Shapiro erano le scarpe di Van Gogh, scarpe da contadino per l’uno e scarpe di uomo di città per l’altro. Ma dietro questa contesa c’era appunto, secondo Derrida, una volontà di appropriazione, di inglobamento, di inclusione, che a ben vedere è il pericolo di qualsiasi discorso sull’opera, di qualsiasi parola che pretenda di dire in modo diverso ciò che l’opera esprime in se stessa.
Ed è in fondo questo il problema di questa mostra. L’impressione è infatti che, quando le opere sono potenti, i nessi narrativi dentro cui sono inserite risultino artificiosi o comunque riduttivi e talvolta persino soffocanti (e ce sono davvero molte di opere potenti qui: dal Red, Yellow, Blue, Black and White di Rothko alla Bethlehem di Franz Kline, dalla straordinaria crocefissione di Basquiat alla meravigliosa Camera aperta sul mare di Leonardo Cremonini, dalla Pietà di Cosmè Tura all’imponente Alkahest di Anselm Kiefer, per citarne alcune) e che viceversa, quando il quadro concettuale dove sono inserite le opere risulta ad esse del tutto coerente come un vestito ben tagliato, le opere rivelino invece come una qualche intrinseca fragilità o, ancor di più, un senso di accidentalità rispetto al contesto.
Lévy è coraggioso nell’accettare la sfida del confronto con le opere. E con coraggio, e non di rado persino con pretenziosa ingenuità, entra in dialogo con esse, ponendosi in prima persona in rapporto con le diverse immagini, cercando di far echeggiare dalla loro consistenza un pensiero. E questo sarebbe possibile perché lo sguardo del filosofo intrattiene con le opere un’esperienza come di coappartenenza al medesimo orizzonte di ricerca, al medesimo desiderio di attingimento della verità. L’idea, seducente e per questo pericolosa, è che la filosofia, senza fagocitare l’arte, senza ridurla a concetto, debba semmai aprirsi alla sua dimensione rivelativa ed epifanica e debba portare a parola il pensiero che l’opera in qualche modo contiene. Dove evidentemente ciò che fa problema è proprio l’effetto a volte di distorsione o di violenza che il discorso produce.
Il tema della mostra è in realtà un tema decisivo sia per la riflessione filosofica sull’arte sia per l’arte in quanto tale. Se c’è infatti una caratteristica che sembra associare le diverse riflessioni filosofiche sull’arte nel Novecento, è l’idea che l’arte abbia a che fare con una qualche forma di svelamento della realtà, che l’arte abbia a che fare, come dice appunto Lévy, con la verità, prima ancora che con la bellezza.
Per Heidegger, l’arte costituisce il luogo in cui la verità accade. Là dove la filosofia si lascerebbe assopire o da uno sguardo puramente storiografico e scolastico o dalle lusinghe di un pensiero calcolante, là dove la scienza metterebbe il pensiero al servizio della tecnica, l’arte costituirebbe invece il luogo in cui è all’opera e si fa opera lo svelamento che è all’origine del vero.
Ma l’idea che l’arte abbia a che fare con una dimensione certamente non riducibile all’esperienza del piacevole o dell’ornamentale attraversa anche una prospettiva del tutto diversa e lontana dalle enfasi heideggeriane dell’autenticità, come è quella, ad esempio, di Adorno. In Adorno, infatti, alla produzione artistica viene comunque assegnato un compito di svelamento, una potenzialità che è critica e utopica allo stesso tempo. Anzi, l’arte è davvero tale, secondo Adorno, quando, disturbando, si fa critica dell’esistente e svelamento delle illusioni concilianti dell’ideologia.
L’autore che nel pensiero contemporaneo forse più di altri e in modo particolarmente efficace ha posto la questione del rapporto fra filosofia e pittura e quindi anche fra verità e bellezza è però Arthur Danto. Secondo quest’ultimo, l’arte contemporanea sarebbe l’inveramento della tesi hegeliana, secondo cui l’arte finisce nella filosofia. Con la fine dell’arte, però, non finisce in realtà l’arte, quanto piuttosto un certo tipo di arte, ovvero quella legata a un canone mimetico e fondamentalmente rappresentativo. Ma questa arte che finisce è anche l’inizio di un nuovo modo d’essere per l’arte stessa. L’arte finisce e diventa filosofia non nel senso che non si dà più arte e si dà solo filosofia. L’arte si fa filosofia, nel senso che l’arte si fa pensiero, nel senso che l’arte diventa riflessione su se stessa e sul mondo in un modo totalmente nuovo rispetto a quanto non fosse mai accaduto. L’arte, insomma, non si dissolve nella filosofia, ma diventa essa stessa filosofia, diventa essa stessa un’operazione di pensiero che nel suo prodursi e nel suo esporsi dà a pensare, si pone come questione da pensare. È a partire da un orizzonte di questo tipo che si spiegherebbe, secondo Danto, l’importanza epocale delle opere di Duchamp, di Warhol, di Rauschenberg (purtroppo assente dal grande “magazzino” raccolto da Lévy), di Koons o di Cattelan.
Ma Lévy, nel suo dispiegare l’intreccio di arte e filosofia, nel suo porre le opere dentro stazioni filosofiche e nel suo porsi come soggetto interpretante di fronte alle opere, non vuole farsi chiudere dentro lo schema dantiano (e hegeliano) e mostrare che l’arte si è fatta in se stessa filosofia, magari anche superando, attraverso il proprio medium e attraverso la sua potenza creatrice, le carenze e le difficoltà della filosofia. L’idea di Lévy nel trattare il nesso tra arte e verità, e dunque il rapporto fra pittura e filosofia, piuttosto che a questa trasformazione dell’arte in pensiero artistico sull’arte è connessa invece a una concezione dell’arte che è insieme romantica, esistenzialistica ed ermeneutica, come rivelazione nel senso, appunto, anche profondamente sacrale che il concetto implica. All’interno di questa dimensione evocativa dell’opera assume un ruolo di primo piano lo sguardo dell’interprete, la sua capacità di connettere oggetti e pensieri, rappresentazioni e storie. E in questo modo il curatore non può non esporsi, ben di più di quanto già abitualmente non accada, al pericolo del soggettivismo, di un prospettivismo quasi privato, della trasformazione del percorso della mostra in una sorta di itinerario spirituale, che può essere apprezzato solo nella misura in cui ci si affida empaticamente all’individualità del filosofo che guarda, che dialoga, che legge e che si fa mediatore – un po’ come lo sono i sacerdoti, per rimanere dentro una metaforica cattolica che è di Lévy stesso – tra l’opera e lo sguardo, tra l’opera e la parola. Rischiando in questo modo quello che rischiano sempre i sacerdoti: che mediando ed essendo il luogo dell’interpretazione, si avvertano a un certo punto come il centro, il perno, il soggetto, facendo così deflagrare le cose dentro i discorsi sulle cose, le opere nelle interpretazioni, il mondo nello sguardo.
Mettendosi potentemente in gioco nell’interpretazione, il filosofo si mette così in qualche modo egli stesso in mostra. Rischiando, talvolta, di pensare di essere lui stesso, come un’icona pop, ciò che è in mostra.
Luca Illetterati
Saint-Paul-de-Vence // fino all’11 novembre 2013
Les aventures de la vérité. Peinture et philosophie: un récit
a cura di Bernard-Henri Lévy
FONDATION MAEGHT
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+33 (0)4 93328163
[email protected]
www.fondation-maeght.com
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