In memoria di Paolo Rosa. L’esperienza del Laboratorio
Ancora un ricordo di Paolo Rosa, scomparso in Grecia la notte del 20 agosto. Questa volta a parlarne è Angela Madesani. Che si concentra sul periodo pre-Studio Azzurro, quello del Laboratorio di Comunicazione Militante e della Fabbrica di Comunicazione alla Chiesa di San Carpoforo a Milano.
Ho conosciuto Paolo Rosa alla fine degli Anni Novanta. Immediatamente ho subìto il suo fascino, di artista, di uomo, di testimone di una storia, iniziata negli Anni Settanta, che mi interessava particolarmente.
Già in quell’occasione mi aveva parlato dei suoi esordi, del suo cammino che si era intrecciato con un momento complesso della storia italiana, quello di un decennio straordinario che avrebbe mutato per sempre il corso delle cose e che mi piace pensare abbia chiuso la storia dell’arte del XX secolo con le ultime avanguardie.
L’anno scorso Paolo mi ha invitato a partecipare a uno stimolante convegno a cura di Guido Bartorelli, presso l’Università di Padova, dedicato a Studio Azzurro, in occasione del 30esimo anniversario dalla fondazione. Il mio intervento era su quanto aveva preceduto la nascita dello Studio, sulla folgorante storia milanese del Laboratorio di Comunicazione Militante di cui Rosa era stato uno dei protagonisti.
Era una storia interessante, carica di implicazioni, di forza vitale. Con i componenti del gruppo abbiamo deciso di dare vita al volume Armamentari d’arte e comunicazione. Lavorare al libro è stato interessantissimo, ho così avuto la possibilità di scartabellare materiali dell’epoca e soprattutto di parlare con loro.
L’esperienza del Laboratorio di Comunicazione Militante e della Fabbrica di Comunicazione di San Carpoforo durano dal 1976 al 1978. Due anni intensi, colmi di accadimenti, di lavori, di pensieri e di azioni. Tutto si è svolto con grande velocità, con un impegno totale e totalizzante da parte di tutti i protagonisti di quella storia. In quegli anni di profonda rottura si comprende il determinante ruolo della comunicazione all’interno del panorama dei profondi mutamenti politici e sociali in atto. Anni particolarmente duri che culminano storicamente con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Il cuore dell’esperienza dei quattro giovani artisti, Paolo Rosa, Tullio Brunone, Giovanni Columbu ed Ettore Pasculli è appunto un’indagine sul senso e sul ruolo della comunicazione.
A metà degli Anni Sessanta tutti e quattro sono al liceo artistico di Brera e, anche se in classi diverse, si frequentano. In seguito Brunone e Rosa si iscrivono all’Accademia. Alla fine del terzo anno di liceo, Paolo, Giovanni e altri, ai quali si aggrega anche Tullio, affittano una piccola casa per farci uno studio, in corso Garibaldi a Milano. Nel piccolo appartamento di uno stabile proletario, i ragazzi danno vita allo studio G 28, dall’iniziale del nome della via e dal numero civico: è il 1967. Lo studio diviene una vera fucina di esperimenti artistici, di ricerche performative e teatrali. Si concepiscono brevi film in 8 e16 mm. I tre vengono singolarmente invitati al Festival dei Due Mondi di Spoleto e alla X Quadriennale di Roma. Realizzano persino una scenografia per il Piccolo Teatro di Milano sullo sbarco alla Baia dei Porci a Cuba. Poco dopo si trasferiscono a Cinisello Balsamo, alle porte di Milano. Per sbarcare il lunario disegnano fumetti. Oreste Del Buono, direttore di Linus, pubblica a Paolo un fumetto dedicato alla storia del bandito Salvatore Giuliano. Poi ne realizza un altro sul caso di Wilma Montesi, una storia tra il noir e la politica dei piani alti, che aveva infiammato l’Italia degli Anni Cinquanta.
Pasculli e Columbu iniziano a fare mostre al Grechetto, da Toselli, sul tema della rappresentazione mediatica della violenza, della criminalizzazione pregiudiziale. Brunone e Rosa sono a fare il militare, ma al loro ritorno si riuniscono all’attività dei vecchi compagni e decidono di dar vita al Laboratorio di Comunicazione Militante. Già nel 1976 Enrico Crispolti li invita alla Biennale di Venezia. Da quel momento molti sono gli interventi e le mostre che li vedono protagonisti in giro per l’Italia e non solo sino alla mostra di chiusura, Immagine arma impropria mostra/laboratorio, nel marzo del 1978 al Museo della Permanente di Milano. La convinzione del gruppo è quella di un diritto sociale all’arte che implica la conoscenza, l’invenzione e la produzione e il non essere più solo ricettori di quanto viene prodotto. Pubblicano un manifesto in otto punti come nella migliore tradizione delle avanguardie. Il Laboratorio va a indagare i modelli di comportamento, le strategie attraverso cui viene orientata l’informazione. Paolo all’interno del gruppo lavorava in particolar modo sugli arsenali e sulla componente narrativa di alcune sequenze fotografiche.
Alla fine del 1976 i ragazzi del Laboratorio, insieme ad altri, occupano la chiesa sconsacrata di San Carpoforo, dando vita alla Fabbrica di Comunicazione. Un luogo straordinario da cui passano John Cage, Brian Eno, l’Odin Theater, Peter Kubelka, Gabriele Basilico, David Cooper, il guru sudafricano dell’anti-psichiatria. La storica dell’arte Marisa Dalai Emiliani li paragona alla Public School One di New York, quello che sarebbe diventato il PS1.
Durante i lavori per il libro, Paolo mi ha raccontato che le esperienze del Laboratorio lo hanno accompagnato profondamente lungo il corso della sua vita professionale con Studio Azzurro. Poco dopo la chiusura del Laboratorio, Rosa realizza con i futuri componenti dello Studio il film Facce di festa, che univa altri soggetti nella lettura di una mutazione generazionale racchiusa nello svolgimento di poche ore in una festa. In un suo testo inedito, Rosa scrive: “Studio Azzurro nasce anche dalla pratica di condivisione, del fare esperienze che coinvolgano, che sfuggano da una tensione elitaria, molto diffusa nel mondo sociale e anche artistico. Da questa abitudine al creare insieme, a fare dialogo e non dominio, nasce una attitudine ad una pratica relazionale, un interesse a considerare i nostri interlocutori come fonti di sapere e non come elementi da educare, di pensarsi co-autori e non più “autori” assoluti e indiscutibili”.
Nell’esperienza di Studio Azzurro persiste il senso di un’arte sociale, un modo di sentire il proprio operare come un atto militante verso il proprio tempo. Nei Videoambienti prima, negli Ambienti sensibili poi, sino alle ultime esperienze partecipative dei Portatori di Storie, ma anche nel teatro e nei film, “abbiamo sempre avuto la sensazione d’essere parte attiva, di cambiare qualcosa, di produrre nuovi linguaggi”.
Paolo con i suoi compagni di strada ha colto con intelligenza la trasformazione del linguaggio, attraverso l’evoluzione tecnologica, che ha costituito la loro tavolozza. Un’innovazione che non è mai stata, sin dall’inizio, fine a se stessa; che ha innescato una dinamica partecipativa, un dialogo tra artista e fruitore e una nuova estetica. “Ma in questa fuga in avanti e in questo percorso nel tempo è stato essenziale potermi voltare ed essere sempre rassicurato e sollecitato dalla presenza della memoria che qui raccontiamo, sempre vicina e ancora incandescente”.
Adesso, caro Paolo, tocca a noi voltarci e guardare alla tua storia artistica e professionale come a un importante esempio al quale abbeverarci.
Angela Madesani
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