In memoria di Paolo Rosa. Il daimon di Studio Azzurro
Ancora un omaggio a Paolo Rosa, recentemente scomparso. Nel giorno del funerale, che si tiene oggi martedì 27 alla Fabbrica del Vapore di Milano, pubblichiamo l’intervento di Valentina Valentini, che insieme a Paolo Rosa ha lavorato sin dal 1988.
Continuo con questa nota il dialogo che ho intrattenuto con Paolo Rosa in questi anni, raro caso di apertura al confronto di differenti visioni, iniziato con il libro dedicato alla Camera astratta (Ubulibri, Milano 1988) e che ha termine con un altro libro sul teatro: Studio Azzurro. Teatro (Contrasto, Roma 2012).
Considerare l’arco di tempo della produzione di Paolo Rosa-Studio Azzurro significa scorrere un percorso di vita che abbraccia gli Anni Settanta e arriva fino al nuovo secolo. Come ha attraversato Paolo Rosa questo arco di tempo, quale il suo daimon, la sua “vocazione” in un periodo storico così turbolento?
Secondo una prassi comune a molti artisti, all’inizio risale la scelta di accantonare la pittura (dopo il ‘68 è considerata espressione di un’arte borghese e tradizionale) e ad essa anteporre la sperimentazione dei nuovi media, famigliari all’universo massmediatico e quindi più diretti, come la fotografia, e di far parte di un gruppo, il Laboratorio di Comunicazione Militante. L’obiettivo era produrre controinformazione, demistificare gli apparati del potere e affermare una dimensione alternativa all’opera come prodotto e merce di consumo. Questa matrice “politica” è l’impronta, la linfa vitale che irrora il lavoro di Paolo Rosa, dall’analisi semiotica dei media negli Anni Settanta alle installazioni interattive degli Anni Novanta, alla serie Portatori di storie, fino ai musei di narrazione del nuovo secolo (fra cui il Museo audiovisivo della Resistenza, il Museo della mente…). Questi progetti realizzati rispondono a una medesima istanza: come è possibile con gli strumenti dell’arte, potenziati dall’apporto delle nuove tecnologie elettroniche e digitali, contribuire a cambiare la società, i comportamenti collettivi, scuotere con un gesto, un’azione – toccare, lanciare un grido – l’anestesia percettiva del soggetto spettatore?
A partire da questa nervatura, vorrei provare a evidenziare alcuni nodi vitali che sostengono la produzione di Studio Azzurro nei suoi vari formati: film , video monocanale, installazione multimedia e interattiva, libri, spettacoli e altro. Studio Azzurro è una firma collettiva, affermazione del lavoro di gruppo come metodo e procedimento produttivo, come evasione dal ruolo – stereotipato – dell’artista demiurgo e, nello stesso tempo, è affermazione di autorialità, in reazione all’anonimato che aveva caratterizzato per un decennio il modo creativo interdisciplinare in vari ambiti artistici. Questo modo di produzione collettivo non è diverso dal modo produttivo del cinema, dell’architettura o del teatro d’autore: significa che un singolo, il regista – ruolo con il quale Paolo Rosa ha definito il suo apporto individuale di ideazione e coordinamento artistico delle diverse competenze interne allo studio -, si assume la responsabilità della condivisione e della realizzazione in gruppo di una idea progettuale.
Studio Azzurro-Paolo Rosa è quindi una firma collettiva e individuale insieme, anomala solo se si posiziona la produzione di Studio Azzurro nel contesto delle arti visive, dove il nome dell’artista è la firma di garanzia (al di là del fatto che il processo produttivo si svolga poi come bottega artigianale o sia organizzato come una azienda). Nel contesto della produzione teatrale, dove è la compagnia, l’ensemble che firma lo spettacolo insieme al regista, è del tutto naturale.
Ma dove si colloca la produzione di Studio Azzurro? In genere è esposta in spazi pubblici dedicati all’arte visiva. Fino agli Anni Novanta ha ottenuto committenza e accoglienza in specifiche manifestazioni dedicate alle arti elettroniche, che non appartenevano ai contesti artistici tradizionali (arti visive, cinema) ma facevano “genere” a sé. Questa incerta ascendenza (“a quale famiglia appartengo?”) la colloca in una zona ibrida, che negli ultimi quindici anni (decaduta la carica dirompente dell’immagine elettronica) è stata quella relazionale-antropologica-tecnologica della cultura della Rete (dove non c’è copyright, ma tante intelligenze disposte a confrontarsi e scambiare conoscenze, diceva Paolo Rosa). Ambivalente perché questa dimensione alternativa, al limite fra le arti e il sociale, per sfuggire all’autoreferenzialità incontra la magia tecnologica e la seduzione dell’immagine ad alta definizione. E, benché ibrida come ascendenza, non sfugge al sistema dell’arte che ha accolto la produzione tecnologica in quanto capace di rifornire l’apparato di novità.
Tale contraddizione si ritrova anche nella definizione delle installazioni interattive come opera processuale che, pur strutturata, nel momento della sua esposizione pubblica aspira alla dimensione partecipata del rituale, trasformando la fruizione individuale in un fenomeno relazionale e ludico. Nello stimolare e dare forma alle storie di chi non ha voce – penso al ciclo I portatori di storie – si innescano processi, operazioni, sostiene Paolo Rosa, piuttosto che opere, che diventano però opere fuori dal contesto in cui sono state realizzate, trasportando le persone che raccontano dalla strada di Casablanca, Potenza o Santa Fe, prima su un set con un blue screen per essere riprese, poi in immagine nei musei.
Di fatto, le opere di Studio Azzurro (insieme a Paolo Rosa, Fabio Cirifino, Leonardo Sangiorgi) confermano una contiguità con le tendenze estetiche del loro periodo: ironia e smaterializzazione di marca concettuale, plasticità dell’immagine e dimensione aptica, evidenziazione del dettaglio e immaginazione narrativa. L’ambivalenza che stiamo tratteggiando riguarda le strategie attraverso cui Studio Azzurro si è fatto guidare dall’istanza di trasformare il mondo con i linguaggi dell’arte, senza lasciarsi recingere da steccati protettivi, reattivo e in ascolto del divenire.
Valentina Valentini
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