Saper vivere d’arte. Il caso Chicago
Tra i tanti, un tormentone in particolare scandisce la storia del nostro Paese: l’Italia ha un’altissima concentrazione di beni culturali che, nei migliori dei casi, non è capace di gestire. Nel migliore, perché poi esistono i casi peggiori, di cui la tragedia di Pompei è perfetta esemplificazione…
Confesso di aver a lungo pensato che tutto questo avesse qualcosa a che fare con quella che il biologo Garrett Hardin, in un saggio del 1968 pubblicato su Science, definiva la “tragedia dei commons”. L’obiettivo teorico di Hardin era mostrare come il problema della fame del mondo sia insolubile e per spiegare le sue ragioni affrontava la questione dei commons, quelle cose che, appartenendo a tutti, dovrebbero migliorare la vita della comunità. Purtroppo, quando ci sono di mezzo i commons le persone ragionano in modi paradossali e, alla lunga, autolesionisti. Non solo non prestano a questi beni la stessa cura che presterebbero ai propri, ma s’impegnano per sfruttarli il più a fondo possibile, nella convinzione che ciò che non arriva a loro andrebbe in ogni caso a qualcun altro. E così per evitare un doppio danno – perdere il profitto derivante dal bene e il bene stesso – lo sfruttano il più intensamente possibile.
Una definizione condivisa e univoca di bene comune non esiste, ma abbiamo buone ragioni per ritenere che l’arte pubblica – quella che si trova nelle nostre città – rientri appunto in questa categoria. A differenza di altri beni comuni – Hardin pensava ai pascoli – le opere non corrono il rischio d’esaurirsi e già questa è una bella differenza. Dunque, qualcuno penserà, nessuna tragedia in vista.
Non è così, purtroppo: le città d’arte sono invase da milioni di turisti, la tragedia di Pompei è cronaca recente e le opere sono soggette a sfruttamento alla pari di qualsiasi altro commons. Nelle pieghe del suo saggio, Hardin offriva anche una soluzione: dal momento che i commons sono votati a così triste destino, privatizziamoli, oppure diamoli in gestione a istituzioni che manterranno pubblica la proprietà e tuttavia ne limiteranno l’utilizzo.
Visitando Chicago, mi è parso evidente come esista almeno un contro-esempio alla teoria di Hardin e si tratta di un contro-esempio davvero straordinario. A Chicago si trova una enorme quantità di arte pubblica, si inciampa quasi nelle opere camminando per il centro. Per esempio, attraversando Millennium Park. L’istituto d’arte, che possiede una collezione d’arte contemporanea di tutto rispetto, è incassato al limite di uno dei margini esterni di Millennium Park, quello che si affaccia su Michigan Avenue. Tutto intorno, il parco sembra messo lì per ospitare le opere: dall’enorme e bellissimo “fagiolo” di Anish Kapoor, in cui la luce gioca con i riflessi di una delle skyline più suggestive al mondo, ai Borders di Steinunn Thórarinsdóttir, che creano una singolare mescolanza di realtà e finzione. In un giardino popolato da statue che sembrano uomini, metà bianche e metà nere, si aggirano e si confondono uomini in carne e ossa; il tutto offre una rappresentazione in cui i confini tra l’umano e il non umano sono presentati in modi non banali, ponendo in questione, appunto, la linea sottile che separa l’umanità dall’altro da sé.
L’elenco potrebbe continuare a lungo: Millennium Park è una narrazione a cielo aperto dei mille modi in cui gli artisti rappresentano il mondo. Quelle narrazioni sono al servizio della città, dei cittadini e di tutti coloro i quali si trovano a passare per Chicago. Moltiplicano la bellezza del luogo e ne amplificano le potenzialità narrative. La città racconta così centinaia di storie, basta fermarsi a guardarla; le stesse storie che racconterebbero, grazie a una tensione che attraversa i secoli, le nostre città se i loro monumenti non fossero utilizzati come rotonde stradali, i siti archeologici non fossero lasciati allo sfregio del tempo, navi grandi come palazzi non minacciassero lagune e l’arte, nel suo complesso, non fosse lasciata, con una miopia imbarazzante, a se stessa o ai circuiti asfittici del mondo dell’arte.
L’arte è bene comune perché attraverso di essa luoghi e persone costruiscono identità, fortificano il legame con la storia a cui appartengono, danno senso al mondo. Questo significa arte come bene comune e la finalità di quest’arte deve essere di creare cultura e ricchezza. Saper interpretare tutto ciò fa la differenza tra la tragedia di cui parla Hardin e una città che ha saputo cogliere l’opportunità che si è data, facendosi un immenso teatro a cielo aperto. A Chicago hanno dovuto fare lo sforzo di cercare artisti e commissionare opere; noi, che di arte pubblica ne abbiamo a ogni angolo, siamo la perfetta esemplificazione della teoria di Hardin, peccato che, ancora una volta, non sia un bel primato. E allora “ho un sogno”: un ministro dei beni culturali che vada a fare un giro da quelle parti; sono certa che ne trarrebbe ispirazione.
Tiziana Andina
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