L’uomo secondo Giuseppe Iannaccone. Parte I
Una collezione che mette al centro l'uomo. Con due cuori. Giuseppe Iannaccone racconta gli Anni Trenta e l'arte contemporanea e una storia costruita e ricostruita con lo studio e le emozioni. Da Mario Mafai a Hernan Bas, da Antonietta Raphael a Kara Walker.
La sua collezione in poche parole. Cosa l’ha spinta a concentrarsi sul periodo tra gli Anni Trenta e Quaranta?
Qualche volta dico che questa collezione è molto simile a me, è come sono io. In essa ritrovo me stesso, certe emozioni. Ad esempio, parlando di Mario Mafai: non l’ho mai incontrato, ma è come se lo conoscessi. So benissimo cosa provava Mafai… è quello che provo io. Di questa collezione mi ha fatto innamorare l’idea di poter ricostruire degli anni – gli Anni Trenta -, letti come li leggo io. Attraverso, cioè, quella che era l’arte più spontanea, più libera, più vera e anche più legata all’uomo, all’essenza dell’uomo, inteso non tanto e non soltanto come figura, ma come emozioni, come sentimenti, come gioia, come dolori, come passioni. Ed erano loro gli artisti che rappresentavano questa realtà. Così li ho voluti mettere insieme, per provare a vedere se era possibile costruire un’altra storia dell’Italia e di quelle cose che mi interessavano.
Ovviamente, l’ho fatto non tanto per l’amore per la storia di quegli anni, ma quanto per quelle emozioni. E nessuno come quegli artisti, in quel periodo, ha saputo raccontarle così bene. È per questo che l’ho voluta ricostruire, come se fosse la base da una parte di come sono io e dall’altra del mio rapporto con l’arte.
La domanda sorge a questo punto spontanea: come avviene il passaggio all’arte contemporanea?
Tanti mi chiedono: “Ma come è possibile che lei, che ha una collezione degli Anni Trenta così approfondita, così meticolosamente costruita, sia passato all’arte contemporanea, senza niente in mezzo?”. È semplice! L’arte contemporanea è quello che sto vivendo oggi. Ed è normalmente il fine di ogni collezione quello di rappresentare l’arte che pulsa, l’arte che scopre. Però, a mio parere, lo puoi fare solo se ci sono delle fondamenta ben costruite dentro di te. Solo se ti sei fortificato con idee molto chiare su quello che all’interno dell’arte contemporanea stai cercando. Gli Anni Trenta hanno questo scopo per me. È il periodo storico e il modo di fare arte più simile a me che voglio avere dentro quando vado a cercare un’opera d’arte contemporanea.
Ma come cambia il suo approccio di collezionista quando si confronta con un’opera d’arte contemporanea o con un quadro dipinto negli Anni Trenta?
Per gli Anni Trenta è diventata una passione quella di tagliare l’arte di quegli anni trasversalmente, quindi di scindere. Sironi no, Birolli sì, Casorati no, Mafai sì. Mi diranno: ma tu scarti i maggiori! Non fa niente. Non mi sono posto l’obiettivo di rappresentare i più importanti artisti di quegli anni, bensì lo scopo di rappresentare quelli che erano più spontanei nel racconto. Una volta consolidato, questo amore (che non mi lascia mai) mi ha chiarito ciò che cerco nell’arte: l’uomo.
Quindi, quando vado a comprare Hernan Bas, cerco la spontaneità di un ragazzo che non ha nessuna difficoltà a raccontare il dramma della difficoltà di vivere l’omosessualità nella società contemporanea. Che differenza c’è con Arnaldo Badodi, che racconta la solitudine in un caffè di Milano? Nessuna. Con la differenza che Badodi l’ho approfondito, studiato. E sento che se pure mi affascina enormemente, ha vissuto in anni diversi dai miei. Bas mi consente di provare l’emozione di vivere insieme a lui. E quello che lui prova, lo provo e lo verifico tutti i giorni per la strada.
Come interviene tutto questo nelle sue scelte?
Quando vedo collezioni molto importanti, famose, consacrate nel mondo, provo ammirazione e sono consapevole di aver tagliato fuori tanti artisti fondamentali della storia dell’arte contemporanea. Non è che non avessi capito il loro valore. Li avevo capiti eccome, li avevo riconosciuti come grandi artisti e nei musei sono andato a vedere le loro opere con grande piacere. Però non c’entravano con la mia collezione, non davano alimento a questa storia che voglio raccontare.
Ovviamente, ci soffro quando capisco che una collezione costruita con rispetto di quello che sono i valori artistici più importanti dell’arte contemporanea viene consacrata come un assoluto dell’arte contemporanea, ma io non sono capace di fare così. Non è quello che mi interessa. Non sarò quello che avrà messo insieme le cose più importanti che l’arte avrà espresso. Voglio solo raccontare le cose più vicine a me. Forse è egoismo, forse è presunzione, ma io credo che abbiano un valore, anche nel fatto di stare tutti insieme tra di loro.
In realtà, poi, per chi visita la sua collezione c’è un filo conduttore molto evidente. È come se si trattasse di una grande mostra che parte dagli Anni Trenta per arrivare ai nostri giorni…
Questo è il complimento migliore che avrebbe potuto farmi. Io la vedo in maniera assoluta, nell’insieme. Si tratta dello stesso racconto. Se lo spostiamo di cento anni in avanti, va da sé che la società non è più la stessa. Va da sé che i modelli sono cambiati, ma non i sentimenti. La presenza, ad esempio, del genere femminile nella seconda parte della collezione si giustifica solo con il fatto che le donne – che sono probabilmente gli animi più sensibili della società – non si esprimevano negli Anni Trenta, Raphael a parte. Si sono espresse dopo, nell’arte contemporanea. E raccontano della situazione della donna, Kara Walker, Margherita Manzelli… ed è bellissimo questo.
Santa Nastro
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