L’unica speranza per il cinema? Il tax credit. Purché venga sostenuto dallo Stato ed entri nella prassi delle grandi aziende. Così Valeria Golino, a Milano per ricevere il Red Passion Prize di Campari
Se non fosse portatrice sana di eleganza ci sarebbe da farci il titolone. Avrebbe forse sbracato, ammiccato una battuta ironica che manipolata a dovere, inacidita quanto basta, si sarebbe prestata a un lancio d’agenzia con polemiche a raffica. Il concetto passa uguale, ma svuotato da ogni possibile pruderie: cinema italiano fa rima con tax credit, […]
Se non fosse portatrice sana di eleganza ci sarebbe da farci il titolone. Avrebbe forse sbracato, ammiccato una battuta ironica che manipolata a dovere, inacidita quanto basta, si sarebbe prestata a un lancio d’agenzia con polemiche a raffica. Il concetto passa uguale, ma svuotato da ogni possibile pruderie: cinema italiano fa rima con tax credit, altrimenti non si produce più. Peccato però che tax credit non faccia rima con grande azienda. A rammaricarsi per la mancata proprietà transitiva è Valeria Golino, invitata a Milano da Campari per ricevere dalle mani del direttore generale per l’Italia del Gruppo Campari Jean Jacques Dubau e da Carla Sozzani il Red Passion Prize, quarta edizione di un riconoscimento nato in sinergia con Vogue, omaggio che nei giorni caldissimi della fashion week finisce a chi ha dimostrato di averci dato dentro. Costruendo attorno alla passione il proprio successo nel campo delle arti più varie.
Golino parla in veste di regista del fortunato Miele, fresco di distribuzione in Francia: “il film d’autore se non fosse per il tax credit, che speriamo le leggi ci lascino, avrebbe ancora più difficoltà”. Ma chi, in Italia, sfrutta la leva fiscale per sostenere la settima arte? “Spesso non sono le grandi aziende a farlo, sono di più i piccoli imprenditori”. E qui parte l’aneddoto inedito del gran rifiuto arrivato da casa Benetton, alla cui porta ha bussato la produzione di Miele, sentendosi rispondere che “non erano interessati a un film che parlava di una cosa così seria, così grave”.
A fare gli scandalistici ci sarebbe di che speculare su una dritta del genere: ma tutto è bene quel che finisce bene. Il film è uscito, ha strappato applausi a Cannes e sgomita per rappresentare l’Italia alla notte degli Oscar. Una candidatura tutt’altro che di facciata, perché “quella storia lì […] produttivamente avrei potuto avere dei vantaggi se la facevo fuori, ma artisticamente sarebbe stata un fallimento. Era importante che fosse Carlo Cecchi, era importante che fosse Jasmine Trinca, era importante che parlassero quella lingua: quello vuol dire fare cultura. Non “a seconda di chi mi dà i soldi metto la storia lì”. Tanto di cappello.
– Francesco Sala
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