La ricerca artistica di Sabina Grasso (Genova, 1975) è da sempre caratterizzata dall’utilizzo del medium fotografico e video, a metà tra documentazione e creazione di “set” reali dove chi vi abita e l’artista stessa sembrano mettersi in scena alludendo a narrazioni emozionali e a memorie cinematografiche latenti. Dal 2007 a oggi l’artista ha inanellato una lunga serie di residenze e viaggi che non solo hanno rappresentato occasioni per confrontarsi sul piano progettuale e produttivo, ma sono divenute l’elemento strutturale che ha scandito un approccio performativo, emotivo e una sorta di mappatura psicogeografica dei luoghi. Le abbiamo fatto alcune domande, tra una residenza e l’altra, in particolare sul rapporto con l’Oriente e il suo ultimo progetto in bilico tra fisicità reale e dimensione virtuale.
È difficile trovarti per più di tre mesi nello stesso luogo. Mi racconti brevemente com’è nata questa inclinazione al nomadismo, il tuo muoverti tra progetti all’estero e nei circuiti delle residenze?
La città è la mia protagonista, è il mio studio d’artista ideale. Quando sono in un posto nuovo, mi sento al pieno delle possibilità. Seguo il suo flusso, lascio che mi accada. Sono completamente ricettiva e il lavoro è la naturale conseguenza.
Negli ultimi anni sono stata in residenza in sette diversi Paesi. Essere ospitati da organizzazioni artistiche ha sicuramente ottimi vantaggi, ma sarei partita comunque.
Come diversi artisti italiani della tua generazione, hai avuto anche tu il tuo “periodo berlinese”. Riesci a sintetizzarmi quell’esperienza, cos’hai trovato e cosa no?
Mi sono trasferita a Berlino nel 2008. Avendo una galleria alle spalle, ho pensato – come tanti altri colleghi – che lì avrei potuto trovare una buona dimensione lavorativa. A Berlino si stava bene, ho vissuto un periodo stupendo che senza accorgermi è durato tre anni. Ero molto focalizzata sull’arte: guardando mostre, incontrando artisti, vedendo gallerie nuove e dedicandomi alla produzione del lavoro. Ho affittato uno studio allo Stattbad a Wedding, una ex piscina olimpionica a Berlino Est. Gli ambienti della struttura (uffici, spogliatoi, sauna ecc.) venivano affittati ad artisti, musicisti, designer. Non era male, ma alla fine mi sembrava di perdere tempo.
Berlino ti fa vivere in una bolla. Viaggi leggero e lento, hai l’opportunità di concentrarti, leggi, scrivi, incontri persone interessanti e ci puoi bere un caffè anche per cinque ore in un bar. I curatori e i galleristi vengono in studio visit senza menarsela. Spesso si va al Bar Drei, ora non so quale sia di moda… Bevi 3-4 gin tonic, magari con un gallerista importante, e sai che da lì a poco rimedierai probabilmente uno studio visit. Tutto questo, a lungo andare, era diventato un circo che non faceva per me.
In quel periodo sono partita per una residenza a Chongqing, una città della Cina centro-meridionale di 7 milioni di abitanti, una città progetto, un mostro vivo pulsante, grigio e inquinato. Ho avuto uno shock culturale enorme. Tornata a Berlino, avevo capito che stavo perdendo tempo, dovevo vedere più mondo possibile, non potevo starmene chiusa dentro uno studio e parlare della vita che non stavo vivendo. Così ho deciso di lasciare la casa a Kreuzberg e lo studio a Wedding, facendo del detto less is more la mia regola. Meno vincoli, più città.
Tornando alle tue residenze, vorrei approfondire l’affinità che hai progressivamente sviluppato verso l’Oriente. Quali sono i temi e i segni che hanno contaminato di più il tuo lavoro?
Mi affascina l’Oriente, in questi ultimi anni ho viaggiato tra Cina, Corea, Tailandia (la mia residenza in quest’ultimo Paese è stata sostenuta da ntcm e l’arte, un premio che consente la mobilità degli artisti italiani invitati da istituzioni estere: ho potuto così accettare l’invito e partire un anno dopo la mia candidatura): questa è la parte del mondo che mi interessa di più. Credo che chi si vuole occupare di contemporaneo debba viaggiare in quella direzione, e non solo quella. Per me l’Oriente è la follia, un tipo di follia che mi godo ogni volta che la visito. Ricordo che a giugno, appena atterrata a Bangkok, ho mandato un messaggio a Pier Luigi Tazzi dicendogli: “Sento già la pazzia thai”. Avevo bisogno di dirlo e condividere quella sensazione: chi è stato lì per lunghi periodi può capirla.
Non ci sono delle cose precise che posso elencare, poiché in Oriente tutto è talmente eccessivo che, se hai voglia di metterti ad ascoltarlo e guardarlo, sicuramente influenzerà il lavoro, e la percezione di te, e anche dell’arte. Innanzitutto adoro il cinema orientale, ho fatto dei lavori partendo da film di Tsai Ming Liang, Kim Ki Duck, Won Kar Wai. Se riguardi i film dopo essere stato in Asia ti appariranno molto più leggibili e di una poesia estrema. È una poesia a cui puoi accedere tramite le persone che incontri con le quali spesso riesci a instaurare un rapporto di fiducia e un senso di condivisione immediato. A me poi piace perdermi tra le persone e non dico mai di no agli inviti. In fondo, male che vada, posso sempre contare sulla mia capacità di difesa personale…
A questo proposito, guardando i video, le fotografie e tutto il materiale digitale che documenta Empty and Shadow sviluppato durante la residenza tailandese, emergono due temi: quello del corpo, anche estremo, legato alla pratica del Muay Thai, e quello dello spazio, sia artificiale che naturale…
Sì, Empty and Shadow è un lavoro sul mio corpo. Un corpo reale che ho allenato quotidianamente e un corpo virtuale che esisteva ubiquamente, per Live Works – Performance Art Award, tra la Centrale di Fies a Dro (in provincia di Trento) e Campeung, artist’s residence a Chiang Mai in Tailandia, e il web. Ho agito su questi corpi modificando me stessa a mia immagine. Il mio fisico ha cambiato forma e metabolismo, mentre online diventavo un’icona manga-warrior. Tutto il materiale fotografico e audiovisivo che producevo tra la giungla e il ring l’ho condiviso con il duo Francesco Urbano Ragazzi, che hanno curato il sito.
I miei allenamenti di Muai Thai andavano di pari passo anche con la realizzazione di un’altra performance. Si trattava della registrazione video delle mie escursioni nella giungla, in cui cercavo il sole nell’intrico di foglie delle piante tropicali. Il video di 50 minuti, risultato di questa performance, è stata l’opera che ho esposto alla Centrale Fies, lasciando che le immagini della natura e l’audio surround riempissero lo spazio della mostra, ricreando così una foresta dei pugnali volanti. A questo ambiente si sovrapponeva la traccia del mio corpo cosplay – su youtube e tumblr – e l’azione di 20 pugili professionisti mischiati tra il pubblico che, in maniera intermittente, mettevano in atto il “vuoto”: una pratica di allenamento agonistico che viene effettuata da chi combatte per imparare a controllare il proprio corpo e visualizzare un avversario immaginario.
Mi interessa molto il tuo modo di raccontarti anche al di fuori degli spazi istituzionali, tra social network e altro. Come vivi questo aspetto?
Sin dall’inizio nei miei lavori ho sempre attinto ai tipi di comunicazione sociale e virtuale come sms, skype, habbo hotel, facebook. Sono ancora molto attenta ai nuovi trend in questo senso. Negli ultimi anni Facebook in particolare per me è diventata una vera palestra, poiché mi da la possibilità di capire il potenziale di alcune immagini e testi: spio ciò che succede tra gli amici e spesso testo le mie foto per vedere che tipo di reazione provocano. Devo dire che tutto questo mi diverte molto, ma mi dà anche la possibilità di capire meglio la direzione che devo prendere su alcuni lavori. In fondo i social network sono luoghi dove possiamo giocare e plasmare quotidianamente la nostra immagine di noi stessi e del mondo. È un’opportunità enorme!
Francesco Urbano Ragazzi ti ha definito “una controfigura” per descrivere il tuo particolarissimo approccio performativo che fonde identità, esperienza e rapporto con i luoghi mediali della rappresentazione: foto, video e cinema. Come scegli i tuoi attori, come nascono i ruoli che dai a te stessa e agli altri?
Il mio lavoro si basa sul calarsi realmente in una parte, assumere tutto il rischio delle relazioni e delle situazioni, per poi reiniziare al centro della scena. Controfigura è la definizione più azzeccata. La lucidità di Francesco Urbano Ragazzi rispetto al mio approccio è incredibile, proprio perché io spesso lavoro con un grado di inconsapevolezza. La stessa inconsapevolezza che mi fa vivere le esperienze in modo totale e diretto. Per me è sempre come salire sul ring: sai che c’è un rischio ma lo affronti, e alla fine comunque abbracci il tuo avversario.
Scelgo le persone e i personaggi in base alle sensazioni, seguo l’istinto, e mi piace innamorarmi di loro. Quando ho un coinvolgimento emotivo dò il meglio di me perché mi interessa lavorare con la verità e non semplicemente la sua rappresentazione. Ritrarre una persona con cui ho avuto una forte passione ha tutto un altro valore. Così come lavorare su un territorio che mi è stato ostile o che invece mi ha accolta cambia completamente il tipo di risultato che posso ottenere. La cosa importante è esperire i luoghi come le persone. È anche un fatto di generosità.
Come si svilupperà nei prossimi mesi il tuo progetto, dove ti porterà?
Sempre più rischio, sempre più performer, sempre più coinvolta. Stranamente in Italia, almeno fino a gennaio.
Riccardo Conti
www.sabinagrasso.com
www.worrioday.tumblr.com
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