Vite simulate, maschere & potenziale latente
E se il Barocco ancora ci influenzasse? Nel senso: se quell’attitudine “simulativa” fosse un gene responsabile pure dell’attuale stagnazione etica e politica in cui versa l’Italia? Fra Zizek e La Capria, per una nuova puntata di Inpratica.
Ho sentito dei saggi parlare del lento declino.
Dove il pensiero umano era forte, l’improvviso
Scuotersi della realtà si riduceva a un tremore.
Dove il pensiero era debole, la realtà scompariva
Completamente, inghiottita dal caos.
Greg Bear, Petra (1982)
“Nei ‘Passages di Parigi’ Walter Benjamin cita lo storico francese André Monglond: ‘Il passato ha lasciato di sé nei testi letterari immagini paragonabili a quelle che la luce imprime su una placca fotosensibile. Solo il futuro possiede dei rivelatori sufficientemente attivi per esaminare perfettamente queste immagini.’ Eventi come le proteste di OWS, la Primavera araba, le dimostrazioni in Grecia e in Spagna, ecc., devono essere interpretati come segni del futuro. In altre parole, dobbiamo rovesciare la tradizionale prospettiva storicista di comprendere un evento attraverso il suo contesto e la sua genesi. Le radicali esplosioni emancipative non possono essere intese in questo modo: invece di analizzarle come parte del continuum di passato e presente, dobbiamo inserire nel quadro analitico la prospettiva del futuro, considerandole come frammenti limitati, distorti (a volte perfino pervertiti) di un futuro utopico che si annida nel presente come suo potenziale latente” (Slavoj Zizek, Un anno sognato pericolosamente, Ponte alle Grazie 2013, p. 164).
Come realizzare questo “futuro utopico”, come tradurre nella realtà questo “potenziale latente”?
Innanzitutto dobbiamo considerare come in questo Paese – e non solo – viviamo una paralisi dovuta a simulazione: questa simulazione si è ormai estesa a una fascia ampissima di italiani, di età compresa tra i 18 e i 45 anni. È una sorta di “contro-addestramento”, o addestramento negativo: l’umiliazione collettiva ci condiziona così profondamente che anche il modo di raccontare – o di non raccontare – questa condizione ne risulta infettato. Le generazioni che simulano una vita che non stanno effettivamente conducendo hanno una difficoltà estrema a riconoscere i differenti livelli della finzione esistenziale: “Io mi conformo a una certa idea, ereditata ed ereditaria, di quella che dovrebbe essere la mia vita; facendo questo, non sto vivendo né quella finta né una possibile vita reale, che nella sua difficoltà e asperità avrebbe almeno il pregio dell’ignoto, di introdurre un elemento di imprevedibilità che perciò stesso è in grado di sfuggire alle disposizioni introiettate, incorporate dalla nostra generazione.”
La simulazione è per noi italiani una condizione secolare, atavica: è qualcosa che ha a che fare – moltissimo – con il Seicento, con il Barocco, con la Controriforma, con la commedia dell’arte, con il melodramma. Da circa quattro secoli e mezzo, la nostra vita individuale e collettiva si svolge sempre e comunque nel territorio della rappresentazione, della teatralità, della finzione. Della maschera: “La non-volontà di conoscersi degli ‘italiani’ è strettamente legata ad un altrettanto forte bisogno di una maschera. Mettersi in maschera significa non solo nascondersi dietro una maschera, ma attribuire alla maschera il compito di rappresentarci. La maschera diventa l’intermediario, l’altro io interposto tra noi e gli altri. […] la maschera consente sempre all’io che c’è dietro un’ultima riserva, gli consente sempre al momento buono di sganciarsi, di dissociarsi, di ritirarsi dal gioco e di non identificarsi più con quello che fa. Di prendere le distanze, insomma, e dunque di sentirsi non-responsabile […]. Gran parte della cultura, dell’arte e del genio italiani mi sembra dominata da questo bisogno di mettersi in maschera, forse perché il nostro compito storico è stato quello di perpetuare una grande eredità classica, che era insostenibile e troppo grande per i tempi, e l’unico modo per farla rivivere e trasmetterla è stato quello di assumerne la maschera. Così è stato con l’Umanesimo e col Rinascimento, da questo bisogno di mettersi in maschera è nata la Commedia dell’Arte, il Barocco, la ‘maniera’ e il culto della Bellezza, tipicamente italiani, e il melodramma. Ma attenzione! L’io dietro la maschera, l’io dietro la stilizzazione teatrale e il bel canto, dietro il manierismo e l’estetismo, è un io realista, di un realismo brutale e machiavellico, più familistico e tribale che sociale…” (Raffaele La Capria, Il sentimento della letteratura, Mondadori 2011, pp. 238-239).
Dunque, è come se non avessimo mai davvero imparato come si aggancia il pensiero all’azione, il racconto alla trasformazione effettiva del mondo. Dei corpi, delle relazioni, dei rapporti: di ciò che noi facciamo insieme agli altri.
Per realizzare il “futuro utopico” e il suo “potenziale latente” di cui parla Zizek, occorre dunque riconnetterci – o connetterci per la prima volta – alle nozioni di responsabilità ed esperienza; abrogare e abolire la distanza patologica tra le produzioni e gli oggetti culturali (libri, opere d’arte, film, dischi, discorsi) e il dominio della società e della politica.
Christian Caliandro
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