Cile: dopo la fiera, una biennale?
Più che una fiera d'arte, un evento. È questa l'impressione ricevuta passeggiando per gli stand di Ch.aco, fiera d'arte contemporanea di Santiago del Cile che, alla sua quinta edizione, si è conclusa il 30 settembre. Ne abbiamo parlato con Irene Abujatum ed Elodie Fulton, direttrici della fiera e della galleria d’arte AFA.
Un numero limitato di gallerie – trentuno, a maggioranza cilena – per rendere meno sfiancante la visita, fiumi di prosecco delle Ande, musica elettronica con dj-set live, un flusso di persone e personaggi, artisti, socialité cilena e curiosi, più intenti a divertirsi che a creare networking. Pochi grandi nomi, Alfredo Jaar e Martin Paar su tutti, e una presenza compatta di artisti più o meno emergenti della scena cilena e latinoamericana. Complice l’euforia della novità, o la consapevolezza di una crescita economica costante e stabile insieme a prezzi più che abbordabili delle opere (uno stand nello spazio delle gallerie emergenti vendeva tutto a mille pesos, equivalenti a un euro e cinquanta), i bollini rossi alle pareti fioccavano già a poche ore dall’inaugurazione.
Un contesto con minore pedigree e più informale rispetto ai circuiti consolidati delle fiere europee, che però ancora manca di una visione più ampia e meno territoriale dell’arte, evidenziando la dicotomia cilena del “dentro o fuori” dal Paese, retaggio della dittatura pinochetista che ancora aleggia negli ambienti borghesi. Il punto su Cha.co lo abbiamo fatto con le direttrice della fiera, Irene Abujatum ed Elodie Fulton.
Com’è nata l’idea di Ch.aco? Quando avete capito che era necessario per il Cile avere una propria fiera d’arte contemporanea?
Abbiamo capito che era ora o mai più e che era una necessità urgente. L’idea di una fiera d’arte contemporanea è nata nel 2009 in concomitanza con la Triennale che si è svolta in Cile. L’esigenza era mettere insieme tutti gli agenti del mondo dell’arte contemporaneo cileno – teorici, curatori, gallerie, artisti, collezionisti, istituzioni – e conoscerci per creare un mercato dell’arte in Cile. L’obiettivo era far confluire tutte queste istanze, in un solo evento e in una sola settimana.
È interessante che la prima edizione di Ch.aco coincida con gli anni dell’inizio della crisi in Europa, quando il mercato dell’arte ha perso i collezionisti “medi” e si è posizionato sulla compravendita dei grandi nomi dell’arte contemporanea e moderna, rendendo più difficile la vendita degli artisti emergenti. Come stanno le cose in Cile?
In Cile non avevamo questo problema principalmente perché non esisteva niente: eravamo senza nessun referente da questo punto di vista, però avevamo intuito che c’era un pubblico ricettivo e che dovevamo far conoscere a questo pubblico l’industria dell’arte, renderlo trasparente al Paese, perché è stato sempre un settore nascosto al grande pubblico, e in effetti abbiamo riscontrato un successo inaspettato già dalla prima edizione, in cui c’è stato un flusso di 25mila persone fino alle oltre 40mila presenze di questa edizione. Le vendite sono andate bene e uno dei progetti è spingere le imprese del paese affinché abbiano ognuna una propria collezione di arte contemporanea.
In questi anni l’interesse internazionale si è spostato in Latinoamerica, soprattutto in alcuni Paesi come Messico e Brasile. In Cile potrebbe essere proficuo creare una rete di collaborazione con questi Paesi?
Credo che le fiere d’arte siano un business che si svolge in ogni Paese in forma individuale e autonoma. Quello che può esistere è un appoggio in termini di comunicazione e pubblicità, invitarsi reciprocamente ecc. Però è certo che ognuno lavora nel proprio Paese in forma autonoma, conoscendo il proprio territorio e sapendo cosa è più vendibile o meno.
Le fiere latinoamericane nate negli ultimi anni non sono tante e ci conosciamo perfettamente nell’ambiente: non hanno tutte la stessa logica di lavoro, nessuna è uguale a un’altra, ognuno cerca di attivare un mercato specifico di compratori. Ci sono alcune più potenti di altre, come quella in Brasile, sia per l’afflusso di persone che entrano in contatto con la fiera sia per una politica di appoggio istituzionale all’arte che coinvolge teorici, curatori e artisti, creando una scena molto interessante. La fiera messicana invece è molto grande, però non ha la stessa rete di appoggio istituzionale che c’è in Brasile. La colombiana potrebbe essere interessante, ma è finanziata dalla Camera di Commercio e quindi si presenta come più istituzionale.
In ogni caso, noi non vogliamo essere identificati come fiera latinoamericana: non siamo dentro la logica latinoamericana, perché non ci siamo voluti inserire in questa logica, di fatto ci interessa di più creare un legame con altri Paesi del Pacifico. La nostra è una fiera “boutique”, il nostro intento è essere una fiera “cool”.
Perché un collezionista straniero dovrebbe comprare un emergente cileno? Che nomi farebbe?
Sicuramente conviene a un collezionista straniero comprare in Cile, perché i prezzi sono ancora bassi. Ad esempio, un’artista come Nury Gonzales, che ha presenziato in quasi tutte le biennali, si vende a un prezzo abbastanza basso, mentre in Brasile un’artista con lo stesso curriculum si venderebbe a un costo molto più alto. Per un europeo venire in Cile significa poter incontrare buone offerte, “chicche” con potenziale, perché è un mercato molto nuovo in termini internazionali, e per questo non ha il peccato del “successo”: è come una miniera d’oro da sfruttare. In ogni caso, è un tema delicato, perché a noi come galleriste ci preoccupa il fatto che le nostre “gioie” se ne possano andare via dal Paese; sarebbe meglio che ci fossero collezionisti locali che comprassero questi artisti e li valorizzassero.
Uno degli obiettivi di Ch.aco è proprio questo: evitare che gli artisti escano dal Paese, creando un contesto in cui possano lavorare ed essere valorizzati. Gli artisti stessi, infatti, che fino a poco tempo fa erano resistenti al mercato, avendo una visione più idealista dell’arte, ora vedono questa fiera come un’opportunità per produrre nuove opere e incentivare il proprio lavoro. Abbiamo catturato queste istanze soprattutto perché manca un appoggio agli artisti emergenti da parte delle istituzioni locali.
Com’è l’ambiente artistico cileno e quali gli scenari futuri? Dopo la fiera, una biennale?
La scena è endogamica e retrograda. Nonostante tutto, il Paese in questo momento sta diventando molto di “moda” per la crescita economica, il clima, i prodotti del territorio come il vino, ma anche per la sua scena culturale: sono già presenti festival di musica, cinema e architettura, e sicuramente un progetto come quello di una biennale sarebbe proficuo per canalizzare tutto questo fermento culturale e questa energia nel mondo dell’arte contemporanea. In Brasile, ad esempio, la fiera d’arte di San Paolo è nata parecchi anni dopo la biennale e il contesto teorico prodotto da quest’ultima ha sicuramente aiutato il mercato dell’arte brasiliano. Nonostante tutto, manca ancora qualche anno perché questo progetto si possa realizzare: nuovi teorici stanno già lavorando in diversi luoghi del Paese, proponendo progetti interessanti, e sicuramente saranno i protagonisti di una iniziativa di così ampio spettro. Inoltre manca una politica di appoggio al settore da parte delle istituzioni e dello Stato, così com’è stato per Ch.aco, e questo è un fattore negativo ma anche positivo, da un altro punto di vista, perché implica una maggiore autonomia.
Mariagrazia Muscatello
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