Oltre che uno dei maggiori protagonisti del Neorealismo, Carlo Lizzani ne è stato – caso più unico che raro – uno dei più profondi e lucidi studiosi, ricostruendone con passione e filologia la temperie culturale, l’atmosfera di attesa e di rigenerazione (che presenta moltissimi punti di contatto, peraltro, con la situazione attuale del Paese): “Per la prima volta tutto il mondo tradizionale veniva messo in crisi; per la prima volta gli intellettuali sentivano la necessità di affiancarsi, nella lotta per il rinnovamento della società italiana, agli strati popolari, di condurre insieme ad essi una lotta diretta per la liberazione del paese da un regime decrepito e per la costruzione di una autentica democrazia. Per la cultura italiana, era divenuta sempre più chiara, in quegli ultimi mesi di crisi prima del 25 luglio, la stretta interdipendenza che correva tra le gerarchie fasciste, la casta militare, e i ceti privilegiati. (…) L’Italia si preparava veramente a dire qualcosa di nuovo al mondo, dal momento che sul suo suolo pareva di assistere non ad un semplice cambio della guardia imposto dall’esterno, ma a un processo profondo e radicale di autoesame” (Società nuova, cinema nuovo, ne Il cinema italiano. Dalle origini agli anni ottanta, Editori Riuniti, Roma 1982, pp. 105-106).
Di questa atmosfera psichica, Roma città aperta di Roberto Rossellini – film per il quale Lizzani fu aiuto-regista – fu al tempo stesso il termometro e il detonatore. Questo film-mondo infatti, che riesce a costruire sullo schermo cinematografico non il semplice rispecchiamento della realtà fuori dalla sala ma la realtà dell’Italia futura, condensando quasi tutto il cinema dei tre decenni successivi e riflettendo la più vasta trasformazione sociale e identitaria, è “la prima testimonianza poetica della Resistenza italiana, è il quadro vivo di una situazione che vide divenire gli ‘uomini della strada’, le donne, i ragazzi, i veri protagonisti della nuova storia civile del nostro paese. […] La presenza di questi due consumati ‘mestieranti’ [Anna Magnani e Aldo Fabrizi, N.d.A.] accanto a quella di tanta gente presa dal vero, denunciava subito la prima verità profonda del neorealismo: non essere, questo movimento, una formula estetica prefabbricata, una equazione perfetta basata sul fatto verità-poesia. Cosa poteva fondere quella ibrida mescolanza di istrionismo e di documentarismo se non una visione nuova della realtà, se non l’appassionato slancio di una poetica esplosa dal più generale terremoto che scuoteva il nostro paese?” (ivi, pp. 107-108).
Di questo terremoto, Lizzani si fece interprete contribuendo allo sviluppo di quel processo culturale che possiamo definire “Neorealismo continuo”, che collega i primi anni Cinquanta ai tardi anni Settanta e che vede la collaborazione di più generazioni di autori (registi, scrittori, artisti) in un gigantesco lavoro collettivo di elaborazione. Dopo l’esordio alla regia di Achtung! Banditi! (1951), della primissima fase sono da ricordare almeno Amore che si paga, la sorprendente e delicata inchiesta sulla prostituzione a Roma che apre il film a episodi concepito come un rotocalco L’amore in città (1953), straordinaria palestra di talenti (Antonioni, Fellini, Lattuada, Risi, Maselli, Zavattini); Ai margini della metropoli (1953); Cronache di poveri amanti (1954), dal romanzo omonimo di Vasco Pratolini.
Con Il processo di Verona (1963) e La vita agra (1964, tratto dal libro di Luciano Bianciardi) si inaugura una ricca stagione di cinema di nuovo impegno civile, in cui l’indagine sul passato e sul presente della nazione contribuisce alla costruzione dell’autobiografia collettiva che parte nei primi anni Sessanta (insieme a film come Il federale di Luciano Salce, Anni ruggenti di Luigi Zampa, I compagni di Mario Monicelli o Le mani sulla città di Francesco Rosi). È una stagione di grande complessità tematica e stilistica, destinata ad accompagnare i mutamenti convulsi della società tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta. Dopo l’esperimento riuscito a metà di spaghetti-western “d’autore” (Requiescant, 1967), Banditi a Milano (1968) è un’opera esplosiva, in grado di fondere in maniera apparentemente impossibile due moduli come il cinema politico e d’inchiesta e quello d’azione, e di diventare per questo – due anni prima dell’Indagine di Elio Petri – il modello ‘nobile’ di tutti i migliori poliziotteschi del decennio successivo.
Questa attenzione prosegue con Roma bene (1971), in cui è chiaro in maniera quasi didascalica che cosa Lizzani osservatore e autore fa dei materiali che la realtà – sotto gli occhi di tutti, allora come oggi: e, in molti casi, pressoché immutata – mette a sua disposizione. In questo caso, in Mussolini: ultimo atto (1974) e soprattutto nel glaciale, disturbante San Babila ore 20: un delitto inutile (1976) riesce a portare avanti un discorso articolato ma perfettamente fruibile sulle successive mutazioni dell’Italia e degli italiani. Le discussioni aggressive e inconcludenti nel bar, le biglie d’acciaio lanciate da un capo all’altro del corso milanese e soprattutto la scena in cui i giovani assassini vengono pescati in sala giochi sono l’annuncio potente della devastazione immaginaria in atto, e di quella a venire.
Christian Caliandro
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