Un asino per Palermo. L’arte pubblica? Bocciata
Mentre Palermo si candida al titolo di Capitale Europea della Cultura 2019, il dibattito sullo stato di salute della cultura stessa non si placa. Sia in città che nel resto dell’isola. Problemi finanziari, organizzativi, progettuali. E l’arte contemporanea? Un disastro, manco a dirlo. Il capitolo arte pubblica, poi, resta del tutto sconosciuto, a parte qualche iniziativa istituzionale ben lontana da adeguati profili internazionali. È troppo chiedere che in una piazza storica, o nella sede del Parlamento siciliano, si lavori su standard più elevati?
La Sicilia e l’arte pubblica, una storia impossibile. Piazze, giardini, facciate di edifici, parchi, aree periferiche: l’ipotesi di affidare a un artista contemporaneo uno spazio aperto, allo scopo di ridefinirne estetica e profilo, appare agli amministratori locali come una specie di bizzarria, un fatto eccentrico e inessenziale. Al di là di alcune straordinarie esperienze, quali quelle di Gibellina o del Parco di Fiumara d’Arte, per il resto la forte identità storica dei luoghi ha rappresentato una sorta di ostacolo alla promozione e al radicamento del nuovo. Installazioni, sculture, wall painting, progetti architettonici, urban design? Tutta roba che non trova credito, consenso, risorse.
Poi però, di tanto in tanto, viene fuori “qualcosa”. E il più delle volte sono sgarri, inciampi, errori se non orrori, improvvisazioni naïf o anche solo iniziative deboli.
È successo lo scorso luglio a Zafferana Etnea, con l’artista cinese Xu Hongfei, il Botero con gli occhi a mandorla. I suoi personaggi obesi, installati nella cittadina catanese, sono stati introdotti con reboanti cerimoniali dal sindaco e dell’assessore regionale ai Beni Culturali. Niente di ascrivibile a quel “realismo cinico” esploso negli Anni Novanta in Cina: semplice scultura di media fattura, testimonianza di una tradizione plastica affrontata senza alcuna vocazione alla ricerca.
E succede ancora, a Palermo. Dove, nel delirio di una chiacchieratissima candidatura per il titolo di Capitale Europea della Cultura 2019, si mette nel calderone anche la nuova scultura installata nella splendida piazza Politeama, agorà storico tra i più apprezzati della città. Qui è spuntato, all’improvviso, un asinello rovesciato in lucido acciaio, il busto per aria e le zampe all’insù, a reggere sugli zoccoli la Piramide della Vita. L’autore risponde al nome di Nino Ucchino e l’opera, inaugurata in presenza del sindaco Orlando e del presidente dell’Ars Giovanni Ardizzone, funge da rimando outdoor alla mostra che la Fondazione Federico II ospita a Palazzo dei Normanni: una doppia personale di Ucchino e Fiamma Zagara, che il direttore dell’Istituto, Francesco Forgione, definisce “artisti di calibro internazionale”. Il tutto, manco a dirlo, sostenuto grazie ai denari pubblici, essendo la Fondazione un organo della Regione stessa.
Eppure, a memoria d’uomo, volendo passare in rassegna le principali gallerie, le megafondazioni e i più autorevoli musei mondo, il nome dei due proprio non ricordiamo d’averlo mai avvistato. Reina Sofía? Tate Modern? Palais de Tokyo? Maxxi? Per sincerarsi si fa un salto sul sito web di Ucchino e a emergere è una collezione di mostre locali, dal Museo dell’acciaio di Savoca (Messina) alla Chiesa del Carmine di Taormina, dalle romane gallerie Benucci di via del Babuino al comune di Sant’Agata Li Battiati (Catania), dalla fiera d’arte moderna di Forlì, al ristorante-cafè Rome di Losanna. Insomma, l’impressione è che il dottor Forgione la biografia dell’artista non l’abbia letta troppo bene. Le opere? Artigianato sacro, astrattismo scultoreo di maniera e una pittura piuttosto accademica.
Stessa solfa con la Zagara, pittrice materica, che sul suo sito si definisce una donna “di spiccata creatività e da sempre appassionata d’arte”, la quale “dopo esperienze in più settori si è dedicata in particolar modo alla pittura e negli ultimi tempi si è accostata alla scultura”. Statement onesto, condito di slancio amatoriale. E la carriera internazionale? Anche qui, nessuna traccia.
Ora, il punto non sono certo questi due artisti, che conducono il loro onesto percorso con apprezzabile passione e buoni riscontri, all’interno di un circuito peculiare. Il punto è che – fatti salvi pochissimi tentativi – l’offerta culturale della città, come pure dell’intera isola, continua a scivolare verso una condizione di qualunquismo incontrastata. Com’è possibile che in una delle più belle piazze del centro storico palermitano si accolga il lavoro di un artista locale, distante dai codici e dalle problematiche dell’estetica contemporanea, avulso dall’art system nazionale e internazionale? E perché tra le sale della prestigiosa sede di Palazzo Reale non potremmo mai sperare di trovarci le tele di Marlene Dumas, Glenn Brown, Luc Tuymans o di qualcuno dei bravi pittori italiani mid career? Perché pare quasi fantascienza immaginarsi un’opera di Anish Kapoor in una grande piazza isolana? E sarebbe troppo, restando in casa nostra, ipotizzare un progetto pubblico firmato da Gianfranco Baruchello o Maurizio Nannucci, oppure dal più giovane Adrian Paci? Giusto degli esempi, tanto opinabili quanto in linea con i parametri minimi (o massimi) di qualità e internazionalità. Una questione di budget, direbbe qualcuno. Falso, rispondiamo. Per certi orrori sono state spese cifre esorbitanti, senza considerare lo sperpero di ingenti fondi europei, ogni anno destinati alla cultura e puntualmente rispediti al mittente.
Dunque, piazza Politeama, dominata dal teatro di Giuseppe Damiani Almeyda, con l’ottocentesco tempietto della musica qualche metro più in là, non meriterebbe forse un progetto ad hoc, una firma illustre, un’idea forte e la supervisione di curatori, storici, critici altrettanto qualificati? Si può consentire con tale superficialità che il destino degli spazi cittadini venga affidato una volta al caso, un’altra a un miope provincialismo, un’altra ancora alle iniziative personali di politici e burocrati?
Cose che pare assurdo ripetere, come il più ozioso dei refrain, dopo le incredibili odissee che i luoghi della cultura, in questa Regione, continuano ad affrontare: dopo le molte cose fatte e quelle distrutte, dopo le battaglie di un grande mecenate come Antonio Presti, abbandonato e persino denunziato dalle istituzioni, dopo la vicenda allucinante del Museo Riso, la sofferenza dei Cantieri Culturali alla Zisa, l’insuperabile impasse di Palazzo Ursino e il tracollo dello Spasimo; dopo gli appelli per le biblioteche che chiudono, i teatri che boccheggiano, i musei che vegetano, i budget che mancano per la conservazione e per la produzione; dopo gli accorati appelli della Fondazione Piccolo, del Museo di Storia Patria, della Fondazione Orestiadi; dopo i palazzi storici affidati ai dilettanti allo sbaraglio, dopo il degrado vergognoso del Montevergini di Siracusa, sommerso di ortiche e spazzatura, e ancora dopo gli infiniti vuoti di pensiero, di economie, di strategia, di volontà… Dopo tutto questo, mentre i grandi meeting internazionali ragionano sul rapporto tra cultura, sostenibilità e sviluppo, qui si prosegue a operare in barba a qualsivoglia criterio curatoriale e progettuale.
Intanto apprendiamo che il somarello, leitmotiv nella ricerca di Ucchino, “rappresenta da sempre uno degli elementi tipici delle culture mediterranee, indicando, al contempo, la fatica e l’operosità degli uomini che lavorano la terra”. Il solito equivoco: un bagaglio culturale millenario, fatto di saggezza popolare, di sincretismi, di simbolismi, di mitologie auree, perde l’occasione di intercettare i venti del presente e di misurarsi col senso di una contemporaneità critica, controversa e stimolante. Così, globale e locale, tradizionale e internazionale, nordico e mediterraneo continuano a non incontrarsi e a escludere la via dell’eccellenza. Quasi che Antonello, in Sicilia, non fosse mai nato; quasi che la sua lezione d’avanguardia e di radicamento si fosse dispersa, tra i venti di libeccio e di scirocco.
Palermo capitale della cultura? Un’idea a favore di marketing e di orgoglio, subito smentita se comparata allo stato delle cose. Che tra alti e bassi, destre e sinistre, rivolgimenti, pause e riassestamenti, resta sempre su un livello conosciuto. Quello dell’inefficienza e dell’approssimazione.
Helga Marsala
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