Un curatore romano a New York. Intervista ad Alessandro Facente
Una conversazione a tutto campo con Alessandro Facente, giovane critico e curatore romano attualmente in residenza presso la Residency Unlimited. Per capire cosa rende la Grande Mela un luogo di attrazione per la cultura contemporanea. E come la pratica curatoriale possa aiutarci a capire meglio le dinamiche del presente.
Il tuo fare la spola ormai da anni tra l’Italia e New York sta portando dei frutti? È un sacrificio che ha senso fare?
L’esperienza che sto facendo alla Residency Unlimited è certamente il frutto più riscontrabile. Tuttavia, durante le mie precedenti permanenze ho fatto innumerevoli studio visit con artisti provenienti da ogni parte del mondo, e solo il fatto di trovarmi a portata di mano così tanti punti di vista mi ha consentito di assorbire diverse forme di pensiero. Guadagnare materia visiva attraverso il dialogo sul lavoro degli artisti ha incrementato quelle capacità di lettura critica che sono determinanti se il tuo approccio curatoriale vuole essere funzionale a trovare nelle opere il senso che occupano nel tempo in cui vengono concepite. Forse quelli che tu chiami frutti, dovremmo definirli semi, che prima o poi fioriranno in altri progetti. Ma solo avere anche la consapevolezza che infilando una mano in tasca sai di averne, significa che questa città ti alimenta qualcosa di più prezioso di uno step curriculare: la fiducia per continuare.
Come sei cambiato, professionalmente ma anche personalmente, da quando hai iniziato a fare su e giù con la Grande Mela?
Il gioco vale senz’altro la candela, ma se sono cambiato non lo so. Certamente confrontarmi con un sistema con ritmi più serrati e concreti ha aggiornato le mie qualità organizzative, ricoprendo dunque nella mia vita professionale e personale un ruolo più che altro formale. In un certo senso però, su questa superficie trovo delle tracce che, se percorse a ritroso, possono portarmi a un livello più interiore.
Quali sono queste tracce?
Mi spiego. New York ha la straordinaria capacità di chiarirti ciò che hai in testa, offrendoti tante occasioni per raccontarti, e questo grazie alla forte curiosità che le persone dimostrano ascoltandoti. Quando spieghi più volte chi sei e come lo fai, le informazioni si radicano così a fondo che alla fine ci credi di più. Questo ragionamento sulla convinzione del pensiero, mi riporta vertiginosamente a un disegno che ho visto esposto da David Zwirner nella personale dedicata a John McCracken. Al centro di questo foglio c’è scritto “Who am I is a statement“, firmato e datato 11/11/1971. Quando ho letto questa frase ho immediatamente capito che ruolo ha per l’artista il colore nel determinare la forma delle sculture. Secondo l’artista, la forma, quindi, non si esaurisce nell’architettura estrinseca delle sue geometrie, ma in quella modificazione sostanziale che tale geometria subisce per via di quelle infinite rifrazioni che le sue cromie lucenti regalano a quelle superfici. Ciò che mi entusiasma è che pur continuando a sussistere nel loro stadio esterno, tali geometrie sprofondano in una dimensione che è certamente interiore, e lo è per la tridimensionalità che quelle stesse cromie specchianti ci invitano ad entrare. Dare a qualcosa di superficiale la speranza di un’interiorità è di una generosità disarmante. E quale altro può essere il senso del nostro lavoro quando, filtrando per le nostre sensibilità, cerchiamo di individuare nell’espressività del contemporaneo uno straccio di interiorità che motivi la bellezza che gli artisti producono per esso? Non è essa stessa lo statement visivo dell’identità del nostro tempo?
Quale è la differenza più macroscopica, vista dagli occhi di un giovane curatore, tra il mondo dell’arte a New York e in Europa o, ancor di più, in Italia?
La formazione. Non parlo soltanto di quella universitaria o post-graduate, ma di quella su strada, democratica, quella che ti costruisci da solo girando per mostre, visitando musei, collezioni, progetti indipendenti, frequentando collettivi, ascoltando talk, partecipando a lecture e panel. Luoghi dove tu stesso costruisci la tua formazione, rendendo più aguzzo il tuo modo di osservare. A cavallo tra il 2011 e il 2012 avete pubblicato una mia trilogia su New York divisa in tre concetti: orientamento, osservazione e costanza. In questa divisione spiegavo come New York ti dà gli strumenti necessari per orientarti nell’infinità di eventi che, ogni giorno, e in via del tutto gratuita, propongono modelli progettuali che possono arricchirti sul piano formativo. Insomma, una mostra con opere ben selezionate o un talk i cui contenuti sono di livello, rappresentano un aggiornamento professionale se li si guarda con occhio scrutativo. Ma è il terzo capitolo che, a distanza di tempo, ancora oggi penso faccia la differenza macroscopica rispetto al nostro: la costanza. La produzione qui non si interrompe mai, gli operatori inventano nuovi modelli e strategie progettuali sempre più intelligenti e a costo zero. Spesso noi ci fermiamo davanti all’insormontabile ostacolo della mancanza dei finanziamenti, togliendoci il piacere di organizzare cose più snelle ma comunque pregne di contenuti. A New York, ma come del resto in moltissime altre aree del mondo, è possibile fare cose poco costose perché sono luoghi in cui i professionisti del settore hanno piacere a tornare. Metterli intorno a un tavolo a discutere di argomenti interessanti è già un buon modo a budget zero di organizzare eventi aggiornando il pubblico.
Qual è il problema del nostro Paese, in questo senso?
Il nostro problema è che l’Italia sta diventando un luogo dove per il contemporaneo non è interessante andare né restare, e dove è lancinante il dolore che si prova quando anche la più piccola attività chiude. Mantenere in movimento la produzione significa quindi non sentire l’onda d’urto della malaugurata chiusura di una galleria, di uno spazio no profit, di una libreria o di una rivista, perché se ce ne sono dieci che chiudono, altri cento progetti stanno per aprire, controbilanciando quel senso di delusione che scoraggia nuove generazioni di studenti e professionisti. E i soldi che non ci sono per mantenere le attività aperte, gira e che ti rigira, devono tirarli fuori i giovani, gli stessi giovani costretti a cercare la formazione all’estero, perché in Italia non c’è l’ombra di quell’offerta gratuita e aperta al pubblico che c’è qui (o in altre nazioni europee e orientali). Stiamo parlando di giocarsi o meno lo spirito, l’entusiasmo, la fiducia. Certo, dirlo adesso, a pochi giorni dalla notizia del mancato accordo sul bilancio degli Stati Uniti dove lo shutdown ha compromesso l’attività di musei e parchi pubblici, può essere un azzardo, ma forse si tratta dell’ennesima sfida per questo Paese, un’occasione per dimostrare ancora una volta la sua capacità di rialzarsi.
Ci racconti invece come funziona, a New York, la dinamica delle “opportunità”? È vero che si tratta di un luogo dove una chance viene data a tutti (e anche la possibilità di giocarsela)?
Non sei tu che cerchi le opportunità, sono le opportunità che trovano te. Questo deve farci capire che per il settore – qualunque esso sia – le persone sono uno strumento, e sapere che si è utili a qualcosa è straordinariamente dignitoso. Non so se esiste una dinamica, so solo che c’è tanta curiosità e sana competizione. Come spiegavo prima, le persone ti fanno tante domande, quindi se hai un pensiero in testa è importante che tu lo esprima sulla base di come lo hai in passato concretizzato. Questo vale anche se si sta parlando di ambizioni future, in questo caso devi saper spiegare come concretamente vuoi realizzarle. Se quello che racconti è interessante, immediatamente si ragiona su come si possa collaborare in futuro. Non vorrei che però si pensasse immediatamente al fatto che dato che ci sono più soldi allora è più facile ingaggiare le persone, e dunque dare loro un’opportunità. Quello che sto raccontando è lo scambio nutriente che c’è prima che il caso diventi opportunità.
Da settembre la tua “carriera” americana beneficia di un ulteriore scatto…
Mi stai facendo la stessa domanda che mi martella da quando sono atterrato. Mi sto concentrando per trasformare questa occasione in una piattaforma neutra su cui testare quell’approccio curatoriale che è stato caratterizzante del lavoro fatto in Italia.
Puoi descriverci questo approccio?
L’idea è quella di spostare la critica d’arte dal momento in cui essa viene solitamente formulata, cioè quando l’opera è finita e si produce su di essa una lettura critica, a quando l’opera è ancora in costruzione, diventando così per gli artisti una voce interna al loro processo. Ho sperimentato concretamente questo metodo nei progetti che ho seguito in Italia e che sto ora seguendo in Marocco. La critica non può limitarsi ad agire solo quando l’opera viene consegnata al pubblico. Spostandola nel tempo, portandola nello studio, ci si accorge che diventa uno strumento non tanto per il critico per studiare cosa succede nel lavoro di un artista, ma per l’artista stesso quando è ancora in fase di ideazione, nel momento in cui è tendenzialmente più fragile e dunque più desideroso di confronto e supporto. É in quel preciso istante che è possibile dissotterrare l’archeologia del lavoro, prima che il rigore e la sicurezza dell’opera finita provveda a coprire tutto.
In che modo pensi di “trasportare” questo lavoro negli States?
Qui mi confronterò con nuovi artisti, ma senza il vantaggio di condividerne un’identità, e una confidenza, come è stato con gli italiani. E questo mi interessa moltissimo perché sperimenterò con loro le qualità pratiche riproducibili del mio approccio curatoriale fino ad estremizzarlo. Questo mi permetterà di testarne le capacità analitiche anche quando non c’è ancora un rapporto stabile a permetterlo.
A proposito di chance, come ti giocherai questa opportunità alla Residency Unlimited?
Affidandomi alla mia identità e facendo quello che ho sempre fatto, stando con gli artisti. Appartenere a una cultura europea, italiana, e in particolar modo romana, significa avere delle radici che affondano in un passato le cui stratificazioni rappresentano i livelli del nostro alfabeto visivo. Avere questa prospettiva verticale, ma verso il basso, in una città come New York, mi spinge a domandarmi dov’è che qui la storia si cela, se non è possibile trovarla in un sottosuolo che effettivamente non ha le nostre stesse profondità.
E ti sei dato una risposta?
Uno degli aspetti più affascinanti di New York è che ognuno ha una storia da raccontare. Se vuoi conoscere quanta profondità possa scorrere sulla superficie di questo lembo di terra, devi ascoltare ognuna di esse. Se passi il tuo tempo qui, per un periodo o in maniera permanente, in qualche modo diventi l’archeologia in movimento di questo luogo. Un po’ come gli “archeologi” di de Chirico: nel tuo addome c’è una città antica che si erige dentro. C’è un libro di Dostoevskij che ha influenzato questa mia ricerca: il tentativo di trovare qualcosa dentro le persone, e nel processo di costruzione delle opere degli artisti. Il libro è Memorie dal sottosuolo. Di questo testo mi piace l’irrazionalità del linguaggio che nei racconti dell’anonimo narratore si pone in contrasto con le manifestazioni razionali della vita sociale della Russia di quei tempi. L’irrazionalità qui diventa quindi un gesto espressivo che serve al protagonista per manifestare le sue isterie interiori, ma che a priori sappiamo essere le “isterie” di un’intera civiltà su cui Dostoevskij propone una lettura a suo modo critica, ma per contrasto.
Concretamente, come ti muoverai?
Durante i miei quattro mesi alla Residency Unlimited svilupperò un’indagine sul lavoro degli artisti che da settembre a dicembre saranno con me in residenza, osservando da dentro il processo di concepimento delle idee. Studio visit, interviste, dialoghi costanti sono gli strumenti che utilizzerò per dare al mio approccio curatoriale una postura critica e narrativa, diventando per gli artisti uno strumento speleologico che avranno a disposizione ovunque decideranno di andare.
Seguirò i luoghi che visitano, passeggerò con loro per vedere gli spazi dove vogliono installare le opere o le aree all’aperto che li stanno ispirando. Come nel caso della Dead horse bay per Rodrigo Braga, una spiaggia che tra il XIX e il XX secolo è stata il luogo di produzione di fertilizzanti ricavati dalle carcasse di cavalli morti e oggi abbandonata. Braga sta sviluppando un lavoro ispirato alle stratificazioni che su questa spiaggia si sono susseguite nel tempo. Questi tragitti rappresentano per me momenti in cui costruire, fuori dalla formalità degli spazi bianchi della residenza, un dialogo ravvicinato con gli artisti, confrontandomi con loro su come le opere possano contribuire alla definizione, anche pallida, dell’identità di questa città.
La domanda che mi sto ponendo è se questa generazione di artisti sia anch’essa impegnata, come gli artisti del passato, a ragionare, altrettanto a fondo, sul tempo e lo spazio che occupa, definendo chiaramente il proprio status di artisti nella società. Quello che vorrei capire è se le opere che gli artisti sperimentano possano rappresentare, ma anche regalare, le profondità per un “soprasuolo” di cui io scriverò le mie memorie, ma appunto dalla superficie.
In cosa consiste il tuo format?
Il format consiste in una serie di talk dal titolo Notes from the surface, che organizzerò con gli artisti presso gli spazi della Residency Unlimited, durante i quali cui condividerò i miei ragionamenti su questa città in relazione alle immagini e i ragionamenti che questi artisti stanno formulando per essa.
Massimiliano Tonelli
http://www.residencyunlimited.org/
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