Simplicitas. Bice Curiger, curatrice della mostra internazionale alla 54. Biennale di Venezia, a proposito della caratteristica “prestezza” della pittura del Tintoretto, fa notare che in pieno Rinascimento il grande artista veneziano sceglie di rappresentare qualcosa di esorbitante come una tempesta (il riferimento è al Trafugamento del corpo di San Marco, uno dei tre teleri che a sorpresa aprono ILLUMInazioni), “con appena tre pennellate bianche”. Un particolare ritenuto pregnante, che la porta all’azzardo critico di assegnare al maestro del Cinquecento, piuttosto che il ruolo canonico di precursore del Barocco, quello di antesignano di Marcel Duchamp e Barnett Newman.
Con fine provocatorietà, il telero in questione viene proposto all’ingresso del Padiglione Centrale ai Giardini, come esempio proto-concettualista di un’estetica del pensiero. Secondo la Curiger occorre rilevare l’esigenza palesata dal grande veneziano, di formalizzare in modo icastico e autoriflessivo il fatto stesso che vi sia luce. Semplicemente. A declamare il messaggio, viene convocato un quartetto improbabile composto (in ordine d’apparizione) da Philippe Parreno, Gianni Colombo, Jack Goldstein e, appunto, Jacopo Robusti detto il Tintoretto. Chi è nei paraggi tace e annuisce (inclusi i piccioni di Maurizio Cattelan) oppure si esalta (Sigmar Polke).
L’impianto teorico di ILLUMInazioni è già tutto qua, ed è sostanzialmente lo stesso di Fare Mondi, la mostra internazionale messa su da Daniel Birnbaum due anni or sono, rispetto alla quale il progetto di Curiger si pone come una specie di secondo atto, anche se più raffinato e meglio sceneggiato. Mentre là l’ambito semantico prescelto era quello della costruzione, intesa anche come nascita, qui il tema proposto è quello dell’illuminazione, altrettanto primario e in grado anch’esso di abbracciare uno spettro ampio e ambivalente di riferimenti: dal richiamo al ‘lume’ razionalista (da cui il termine stesso ‘illuminismo’), fino all’evocazione del concetto mistico-religioso di ‘teofania’, passando per quello più neutro di ‘epifania’.
Ma anche prescindendo da tutto questo, dal fatto cioè che i due concept da un punto di vista non banalmente nominale hanno effettivamente una stessa valenza, le mostre che abbiamo negli occhi sono apparse il frutto di un discorso fondamentalmente univoco, proprio sul piano dei contenuti artistici. Entrambe, infatti, sono risultate sinfonie orchestrate nel segno di un less is more decisamente post, di una poetica dell’elementare sublime riveduta e corretta, situabile a metà strada tra un minimalismo per così dire “caldo” e un concettualismo tenace ma smussato, che predilige ammantarsi di un tenore di lirismo e persino intimismo.
In questo senso, una lettura critica non conformista, concentrata sull’analisi di dati eterodossi, potrebbe incaricarsi di evidenziare la sussistenza, in entrambe le mostre, di un notevole silenzio di fondo riscontrabile in fase di fruizione. Tutt’altra cosa, quindi, rispetto all’impatto acustico forte e generalizzato che aveva caratterizzato in modo appariscente, sempre alla Biennale di Venezia, la mostra internazionale del 2007 firmata Robert Storr (almeno nella sezione allestita all’Arsenale).
Vista da vicino, ILLUMInazioni è una mostra che elogia la concentrazione e che oltretutto la offre (va inteso in tal senso anche il contrappunto costituito dai molti lavori dagli esiti minuziosi). Ed è anche un saggio di bravura sul piano della capacità da parte del curatore di imprimere un ritmo fluido, senza intoppi o increspature, a un corpus quantitativamente rilevante di opere d’arte. Come per la mostra di Birnbaum, quello che può essere visto come il limite di ILLUMInazioni, ovvero la sostanziale mancanza di un carattere d’urgenza di tipo referenzialista, consiste nella sua principale e più saliente caratteristica. Gli artisti selezionati sono circa ottanta. Più di qualcuno graffia, c’è chi addirittura morde, i più ad ogni modo non sfigurano. Eppure è come se l’incanto ci fosse a prescindere. Emerge, in primis in virtù del fatto che l’attitudine all’elementarità viene ribadita costantemente, una sceneggiatura circolare e piana, con cui le molteplici visioni si offrono, a ogni passaggio, nelle migliori condizioni possibili in termini di allestimento, e nel rispetto di una metrica in un certo senso musicale, che quasi vale per se stessa.
Sulle estreme, vengono valorizzati appieno, senza per questo risultare avulsi da un disegno di tipo complessivo, tanto i momenti con un tasso di spettacolarità più spiccato (come quelli senz’altro convincenti di Urs Fischer, Christian Marclay, Nicholas Hlobo, Haroon Mirza, Nathaniel Mellors, Monica Bonvicini, Fabian Marti), quanto gli interventi più enigmatici e meno assiomatici, ma non per questo meno avvincenti (tra cui le ottime prove fornite da Das Institut e Kerstin Bratsch, Ida Ekblad, Emily Wardill, Seth Price, Rashid Johnson).
Una mostra riuscita è sempre in qualche modo illuminante e “luminosa”. Sia quando il risultato è esplosivo e mordace, sia quando la “luce” emanata è invece morbida e compatta. Nonostante la (sola) mossa un po’ sopra le righe, consistente nell’aver chiamato in causa uno come il Tintoretto, che nella storia dell’arte c’è già da quasi cinque secoli, ILLUMInazioni by Bice Curiger è da ascrivere senza riserve alla seconda categoria di mostre da ricordare.
Pericle Guaglianone
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