Brain Drain. Parola a Benedetta Lanfranchi
Da Roma a Kampala, Uganda. È il tragitto compiuto da Benedetta Lanfranchi, che sta preparando la sua tesi di dottorato presso l’Africa Department della School of Oriental and African Studies, all’Università di Londra.
Come si lavora in Uganda rispetto all’Europa?
Per lavorare bene bisogna costruirsi una rete di persone fidate e professionali che ti sostengono e aiutano nei momenti duri. Qui è tutto più difficile rispetto all’Europa, anche per le infrastrutture di base: salta la corrente, Internet è lento, le strade sono spesso “impraticabili”. Alta imprevedibilità che porta a dover improvvisare per tirarsi fuori dai guai. Come coordinatrice culturale all’Alliance Française di Kampala ho affrontato problematiche di questo tipo: un concerto per 200 persone dove improvvisamente salta la corrente e manca la benzina nel generatore. Oppure un catering bloccato perché il camion è fermo in una buca di fango lungo la strada. La soluzione però si trova sempre. Le persone sono abituate a darsi da fare il triplo per ottenere quello che in Europa si dà per scontato. In campo artistico è ancora più forte: gli artisti lavorano spesso in condizioni difficili con strutture vecchie, impianti di bassa qualità, palcoscenici risicati, proiettori che si inceppano. A volte è frustrante per chi lavora. Però il talento, la passione e la voglia di farcela sono tali che superano tutte queste difficoltà.
La cultura è un settore economico in Uganda?
Lo sta diventando sempre di più. E la gente è sempre più disposta a pagare per accedere alla cultura. Nel corso dei miei quattro anni qui ho assistito al cambiamento: oggi quando vado a teatro trovo più gente, anche tanti giovani, mentre prima venivano solo gli espatriati. Per anni ha costituito un problema per gli artisti ugandesi, preoccupati di avere solo un pubblico di bianchi. Adesso sta cambiando. La cultura come settore economico è una visione occidentale, così come quella che la produzione artistica sia un campo separato dagli altri aspetti della vita. Direi che tradizionalmente l’arte fa parte della vita delle persone in maniera più quotidiana e sicuramente gratuita. I luoghi di produzione artistica si stanno moltiplicando, soprattutto nella forma di “jazz bar” in giro per la città. Kampala ovviamente è il centro di questo fenomeno. Il luogo più turistico è il Ndere Center, dove si esibisce tutte le domeniche la Ndere Troupe con danze tradizionali da tutta l’Uganda. Le gallerie d’arte si moltiplicano, come l’Afriart Gallery o la Tulifanya Gallery.
Che ruolo gioca Kampala rispetto alla geografia culturale del Paese?
Direi che quasi tutta la produzione culturale di tipo commerciale è a Kampala, mentre nel resto del Paese prevale la cultura tradizionale. Una delle associazioni culturali più importanti che si chiama Bayimba: promuove festival delle arti itineranti così da coprire tutte le maggiori città dell’Uganda, per colmare il divario culturale tra Kampala e il resto del Paese e per promuovere artisti da altre località. Anche il film festival più importante, che si chiama Amakula, ha avviato il progetto il Cinema Caravan Festival per portare il cinema in altre località del Paese.
Quali attività prevalenti e quali i luoghi della produzione e fruizione culturale?
Il mio luogo è in National Theater di Kampala. Qui ha luogo Dance Week Uganda, Amakula Film Festival, Dance Transmissions Festival, la jam session tutti i lunedì sera, Percussion Discussion Africa ogni ultimo martedì del mese e anche gli spettacoli più importanti dell’Alliance Française Kampala e del Goethe Zentrum. Qui si esibiscono in concerto gli artisti più noti.
Un altro luogo di riferimento è lo splendido giardino dell’Alliance Française e del Goethe Zentrum, che organizzano entrambi attività culturali di altissimo livello. Una delle specialità del Goethe è poetry/spoken word e organizza letture e anche concorsi di poesia. L’Alliance invece è più specializzata in musica. Entrambi fanno cineforum gratuiti nei due cinema principali (ahimè, nel centro commerciale…) di Kampala due o quattro volte al mese.
Ultimamente si sta affermando il simpaticissimo locale Mish Mash, con galleria d’arte, cinema sotto le stelle sotto in mezzo ad alberi secolari e live music. Al Little Flower si esibisce la storica Afrigo Band, l’unico gruppo musicale permesso durante la dittatura di Idi Amin.
I luoghi di produzione culturale che personalmente frequento di meno sono i grandi alberghi, che ultimamente stanno promuovendo sempre di più concerti internazionali di jazz insieme a grandi concerti dei più noti artisti ugandesi. Organizzano anche grandi concerti internazionali: eventi carissimi per gli standard ugandesi (un biglietto costa minimo 50mila UGX, che sono 15 euro circa).
A livello di cultura più popolare invece l’hip hop ugandese è famoso in tutta l’Africa e ha visto formarsi una serie sempre più numerosa di artisti carismatici come Chameleon, Radio and Weasel, Coco Finger, Bobby Wine e Juliana. Loro fanno spesso grossi concerti al Rugby Stadium di Kampala con biglietti per VIP dai 50mila UGX in su e biglietti standard sui 10mila. Poi tutti fanno concerti anche a basso costo nei villaggi in giro per l’Uganda, sulla spiaggia e nei quartieri più popolari. La cosa bella dell’Uganda è che tutti ascoltano hip hop, vecchi e bambini, ricchi e poveri, banchieri e artisti. Mi ricordo che al mio primo matrimonio a cui assistevo ero sconvolta di sentire a tutto volume le ultime hit di questi artisti in un contesto molto “tradizionale” con le danze baganda e i tamburi tradizionali.
Perché, dopo gli studi universitari a Roma, hai scelto di fare esperienze in Uganda?
È stato un caso. Durante l’università a Roma ho vinto il Mae-Crui del Ministero degli Affari Esteri con il quale sono partita in Kenya, all’ambasciata italiana di Nairobi. Uno stage poi trasformato in lavoro: l’ambasciatore mi ha chiesto di scrivere un libro sulla storia degli italiani in Kenya. È stato il mio primo impatto con l’Africa, che mi è piaciuta subito. Due anni dopo, il mio fidanzato ha fatto il Mae-Crui in Uganda. Mi ha convinto a trasferirmi a Kampala. Siamo qui dal 2009. Abbiamo fatto tante esperienze diverse sia nel settore privato, sia nel settore dei diritti umani, sia nel settore degli osservatori elettorali e in quello culturale. Entrambi facciamo il dottorato presso università inglesi. L’Uganda mi ha regalato esperienze professionali intense e lezioni di vita e amicizie fondamentali. La verità è che non vorrei andarmene mai più.
Perché non hai scelto una università italiana per il tuo dottorato?
Ci ho provato. Ho fatto quattro concorsi di dottorato in quattro diverse facoltà di filosofia. Non ne ho passato neanche uno! Confidavo in una per l’interesse agli studi orientali, mentre mi ero già rassegnata al fatto che una tesi di dottorato in filosofia africana potesse interessare. Poi mi hanno presa alla New School for Social Research di New York con borsa di studio parziale e alla SOAS di Londra con borsa di studio. La SOAS è ha una lunga tradizione di africanistica, dove ho trovato sostegno. Alla fine sono stata fortunata: posso lavorare e pubblicare in inglese. In ambito universitario ci sono prospettive più allettanti che in Italia. I miei tre relatori di dottorato hanno meno di quarant’anni… Questo fa intravedere grandi possibilità per i giovani. Inoltre, ci sono più finanziamenti per la ricerca. Per esempio, ho ottenuto una piccola borsa di studio dal British Institute in East Africa per svolgere le mie ricerche in Uganda.
Neve Mazzoleni
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