Michela, sei fra l’altro un board member del MoMA International Arts Council, del Joyce Theater e del Brooklyn Rail. Quali sono le componenti fondamentali della tua attività di strategy consultant?
Coraggio e visione. Devi essere in grado di vedere un po’ più in là prima degli altri, di aprire porte sconosciute. L’alternativa è fare un lavoro banale, assomigliare a un impiegato del catasto.
Esistono posti dove si può imparare questo mestiere?
“L’arte l’ho imparata facendola”, diceva Bruno Munari. Costruire ponti fra l’impresa e la cultura è la mia principale competenza. In Italia sono abbastanza unica in questo. E credo anche negli Stati Uniti.
Ci fai un esempio eclatante di ricchezza culturale che si è trasformata in ricchezza economica?
Quello che è successo a Bilbao grazie a Thomas Krens. Bilbao era una povera sconosciuta cittadina della Spagna che è stata totalmente trasformata dall’arrivo del Guggenheim. Chi dice che la cultura non offre da mangiare commette un errore drammatico. Il grande valore che la cultura produce è l’indotto: i ristoranti, gli alberghi… Il territorio intorno a un museo di qualità è un territorio ricco. È chiaro che nessuna istituzione culturale al mondo riesce a sopravvivere con le proprie risorse e ha bisogno di un sostegno capace di generare ampi benefici alla collettività non solo in termini culturali, ma anche finanziari.
E qui a New York?
La High Line. Una linea ferroviaria fantasma di cui nessuno sapeva cosa farsene, oggi ha trasformato totalmente la visione del quartiere ed è diventata la più piacevole passeggiata della città.
Da quanto sei a New York?
Mi sono trasferita nel 2008, ma la frequento dagli Anni Ottanta, da quando ho cominciato a lavorare per il Guggenheim.
Come hai cominciato a collaborare con il Guggenheim?
Ero un member del loro Junior Council. Ricordo che un giorno mi chiesero: “Michela, perché non ci dai una mano a trovare dei nuovi sponsor?”.
E tu?
Risposi di no, che non credevo negli sponsor. E proposi un’operazione completamente nuova, attraverso la quale creare un rapporto continuativo con le imprese. Tutto nacque in quel momento.
Cosa accadde?
Mi dissero: “Ti diamo sei mesi. In sei mesi fai quello che vuoi. Se funziona, bene, altrimenti ci salutiamo e ognuno per la sua strada”.
E andò bene?
Cominciammo una collaborazione lunga dieci anni. Senz’altro, sono stata il primo esempio italiano di partecipazione stabile e attiva tra un museo e un gruppo di aziende. Sarò riconoscente al Guggenheim tutta la vita.
Più specificamente, quale fu la tua intuizione vincente?
Un museo ha bisogno di risorse continue, di partnership con imprese durature, invece di sponsorizzazioni una tantum. È un po’ come la differenza tra sposarsi e una bella vacanza insieme. Questo significa creare modalità di finanziamento più complesse, ma molto, molto più funzionali.
Perché un museo dovrebbe sposarsi con un gruppo di imprese?
Perché le imprese sanno contribuire con le loro competenze strategiche e organizzative, oltre che finanziarie.
E perché un pool di imprese dovrebbe convolare a nozze con un museo?
Un’impresa può utilizzare e vedere un museo come la propria rappresentanza culturale, ovvero uno strumento di comunicazione efficace, così da costruire un rapporto stabile, a due vie, dove entrambi i partner contribuiscono al benessere reciproco.
Spostiamo l’orizzonte verso il mondo delle gallerie. Qual è lo stato di salute del mercato dell’arte?
La realtà mette in confusione. Gli artisti bravi e non bravi spesso si trovano nello stesso spazio. Oggi sono di moda le fiere, le aste. Essendo di moda, coinvolgono una montagna di soldi. Dove l’arte fa mercato si incontrano le celebrities. Anche le gallerie sono diventate luoghi di espressione sociale, prima che artistico. Infatti, gli opening si sono trasformati soprattutto in eventi. Termine che odio.
Cosa manca a questo presente?
A me manca l’arte pura. E credo non solo a me.
Arte pura?
Una cellula sotto l’osservazione del microscopio si comporta in maniera diversa. Questa evidenza biologica può essere considerata come parabola per spiegare l’attuale mutamento dell’arte dovuto all’immersione del denaro, che ha subito modificato i comportamenti di tutti gli attori in gioco. Se un artista si chiama fuori dal gioco di fare tanti soldi, per me questa scelta aggiunge valore alla sua arte. Se accetti la vita difficile perché non fai nulla per andare incontro al mercato, io ti stimo di più anche come artista.
Purezza sinonimo di ricchezza?
Sì, ma anche molto di più, in quanto la purezza, appunto, non ha mercato.
Alessandro Berni
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