Antonello da Messina al Mart. Lo racconta Ferdinando Bologna
Si ricomincia dal Mart per ricostruire il ritratto di Antonello da Messina, a partire da quella Napoli che fu crocevia di incontri ed influenze. Per lo storico dell’arte Ferdinando Bologna, il dialogo tra artisti contemporanei e maestri del passato “rappresenta un punto di frizione, di cortocircuito intensissimo”. Tutto confluisce nella storia.
Se si pensa ad Antonello da Messina viene subito in mente la mostra antologica tenutasi nel 2006 alle Scuderie del Quirinale. Vorrei che lei sottolineasse la differenza rispetto alla mostra romana in cui veniva fuori l’artista come genio isolato, secondo una visione se vogliamo un po’ romantica. Mi pare, invece, che lei lo ricollochi all’interno di una serie di relazioni. Com’è cambiata la prospettiva in questa mostra a Rovereto?
Da questo punto di vista è cambiata totalmente rispetto alla mostra romana a cui lei fa riferimento, nel senso che intanto ho voluto risarcire i guasti attributivi che aveva fatto la mostra romana, perché essa aveva iniziato col tagliar via tutta la parte giovanile, tutte le opere attribuite alla giovinezza di Antonello e principalmente questi tre capolavori che sono la Santa Eulalia Forti, l’Annunciata di Como e la Vergine leggente di Baltimora, capolavoro straordinario e intensamente pierfranceschiano frainteso grossolanamente dalla mostra di Roma.
C’era stata una messa in discussione proprio di quanto diceva Roberto Longhi a proposito di un possibile incontro, un legame diretto con Piero della Francesca…
Soprattutto questo è l’aspetto negativo, più marcato della mostra di Roma: aver negato validità a ciò che Longhi aveva scritto già nel 1914, ma poi anche nel 1953 e nei saggi successivi relativamente ai rapporti tra Piero della Francesca, perno solido e diramato e poi da un lato Antonello, dall’altro Giovanni Bellini. Questo, la mostra di Roma l’aveva negato due volte, perché alla mostra di Antonello era seguita quella di Giovanni Bellini. Anche la mostra di Giovanni Bellini si è presentata secondo questa caratteristica negatrice: loro dicevano di revisione delle teorie di Longhi, delle tesi da lui sostenute fin dal 1914, mentre invece l’opinione di Longhi, espressa in quell’occasione, aveva fatto testo e le sue tesi erano accettate universalmente sia in Italia che all’estero. Questo è stato l’atteggiamento preso da Lucco nel concepire questa mostra, tra l’altro poi parlando di caso, di fortuito, cioè di cose che con la storia non hanno veramente nulla a che fare.
Esiste un problema relativo alla cronologia delle opere dovuto a scarsità di documentazione e a veri e propri vuoti. Vengono avanzate ipotesi di nuove datazioni oppure attribuzioni con questa nuova mostra?
Sì, da questo punto di vista la mostra presenta una revisione profonda del problema, sia per quanto riguarda le datazioni, sia, addirittura, la data di nascita di Antonello, che abbiamo arretrato di almeno 5 anni, perché Antonello comincia prima di quando Vasari stesso dicesse. Poi c’è stata anche tutta una serie di revisioni di attribuzioni.
Per esempio la Madonna di Como, da lei attribuita ad Antonello da Messina.
Sì, l’attribuzione ad Antonello è mia. Longhi l’aveva confrontata con la parte destra del San Francesco che dà la regola agli ordini di Colantonio nella Pala di San Lorenzo e l’aveva giustamente messa in rapporto con quell’opera perché c’è questa radice in qualche modo jacomartiana, valenciana che però Antonello in quell’opera travolge completamente e la rimette in piedi su una base geometricamente, architettonicamente pierfranceschiana.
E poi in mostra è presente anche il Maestro di San Giovanni da Capestrano…
Questa è una novità che io vado sostenendo dal 1950 quando scoprii questo quadro nella chiesa di Santa Maria degli Angeli alle Croci di Napoli poi passato a Capodimonte, adesso qui in mostra ed è un’opera che io reputo fondamentale.
Quindi l’identità di questo pittore è stata ricostruita interamente da lei?
Sì, certamente tutto il gruppo l’ho ricostruito io, collegando il quadro di Napoli presente in mostra con il San Bernardino di Roma pubblicato a suo tempo da Zeri come opera romano-abruzzese che in questo modo si avvicinò molto alla verità. Sono riuscito a collegare tutto questo con un documento preziosissimo trovato a Napoli che cita un Maestro Giovanni di Bartolomeo dall’Aquila nel 1449 a Napoli, quando promette di sposare la figlia di un pittore di corte che si chiama Andriel da Gaeta, un punto di riferimento per ambientare il pittore nella situazione napoletana. Veniva da L’Aquila, poi ci torna, però il problema della formazione e della costruzione culturale si svolge a Napoli.
Qual è il collegamento con la figura di Antonello da Messina?
Probabilmente i pittori, giovani tutti e due, si sono conosciuti nella Napoli del tempo e nella bottega di Colantonio hanno lavorato insieme.
Ricollegandoci invece al contesto in cui ci troviamo, cosa significa per lei curare una mostra in un museo di arte contemporanea?
Non è una novità perché esporre opere contemporanee in musei d’arte antica è tutt’altro che nuovo. È stato sperimentato dappertutto e per esempio anche a Napoli, a Capodimonte, nel pieno delle sale seicentesche dove sono esposti i Caravaggeschi come anche il Caravaggio stesso, è stato inserito il grande Cretto di Burri, gigantesco. Quindi questo è un punto di frizione, di cortocircuito intensissimo tentato già molto tempo fa, perché questa operazione risale a quando era ancora vivo Raffaello Causa, il vecchio soprintendente.
Lei ha recuperato la figura del conoscitore assieme a quella dell’interprete di documenti per un approccio filologico all’arte. Può funzionare anche per l’arte contemporanea?
Certo, perché il problema dell’appoggio dell’opera al documento è fondamentale. È proprio da queste certificazioni che si parte per ricostruire la storia.
Antonella Palladino
Rovereto // fino al 12 gennaio 2014
Antonello da Messina
MART
Corso Bettini 43
800 397760
[email protected]
www.mart.tn.it
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