Roma Film Festival Updates: c’è anche Mimmo Paladino a festeggiare il debutto in tricolore. Ma perchè dobbiamo accontentarci di essere sempre “L’ultima ruota del carro”?
Partenza insolita per l’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, che ha aperto con L’ultima ruota del carro, una commedia italiana di gusto piuttosto popolare che si fatica a vedere collocata in apertura di un festival, tant’è che persino il regista Giovanni Veronesi all’invito di Muller era rimasto un po’ incredulo. I presupposti […]
Partenza insolita per l’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, che ha aperto con L’ultima ruota del carro, una commedia italiana di gusto piuttosto popolare che si fatica a vedere collocata in apertura di un festival, tant’è che persino il regista Giovanni Veronesi all’invito di Muller era rimasto un po’ incredulo. I presupposti ci sarebbero anche per un buon risultato: purtroppo la permanenza in sala diventa insostenibile già dopo il primo quarto d’ora, nonostante la firma di Ugo Chiti tra gli sceneggiatori. L’impianto è teatrale così come la recitazione: si tratta dell’affresco dell’uomo qualunque italiano attraverso quarant’anni di storia del paese. Storia oleografica, fatta di clichè e luoghi comuni, di stereotipi triti e fastidiosi, di eventi appena accennati e citati in modo superficiale e approssimativo. Nel cast oltre ad Elio Germano, Micaela Ramazzotti e Alessandro Haber, che interpreta la caricatura di un artista, ma ci mette anche molto di sé: almeno a lui va il merito di regalare il momento di tensione massima con uno struggente sguardo in camera. È Mimmo Paladino ad aver prestato le sue opere degli anni Ottanta e ad averne addirittura realizzata una ad hoc per questo personaggio. Bravo Sergio Rubini anche quando è macchiettistico. Ricky Memphis fa l’azzeccagarbugli e gli riesce bene all’interno dell’economia narrativa. Colonna sonora di Elisa. Chi si è occupato del trucco-invecchiamento invece farebbe bene a considerare strade alternative.
Comunque il punto è che il film lascia un grande vuoto. La delusione di chi si aspetta qualche contenuto, un po’ di forma che non sia solo sempre un abbozzo. Il film è come il protagonista: senza aspirazioni. Magari qualche italiano si indigna, rifiuta di essere rappresentato sempre come lo scemo del villaggio, non accetta più la rappresentazione autoesotica dell’eterno improvvisatore, di quello che si arrangia non potendo fare di meglio. Il film inizia e finisce nella discarica di Malagrotta: giusto proiettarsi all’estero, perchè Muller sostiene che questo film ha un futuro oltre confine, nelle due declinazioni che oscillano tra la decadenza de La grande bellezza, su cui pesa il complesso insuperato degli anni Sessanta, e quello della “grande monnezza”, il poveraccio senza speranza che vive all’ombra della sua mediocrità e a cui viene concessa una sorta di poco credibile felicità consolatoria dei valori semplici. Qui niente a che vedere coi Bassifondi di Kurosawa. Anni luce lontani da Heimat.
Ed è giusto citare certi titoli perchè in realtà l’operazione era ambiziosa, le componenti strutturali rimandano inevitabilmente ad illustri predecessori, e poteva essere mantenuta con dignità anche nei toni della commedia, invece di scivolare in una retorica che è come il ramo evolutivo dei cefalopodi: morta. Insomma i cinesi possono avere un Vivere firmato Zhang Yimou e noi dobbiamo accontentarci, come nelle barzellette della globalizzazione coi vari rappresentanti delle nazioni del mondo, di essere sempre solo l’ultima ruota del carro?
– Federica Polidoro
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