Ancora sul caso Macro, ma con gli occhi di Odile Decq. Riflessioni a margine della presentazione di un prezioso libro dell’architetta francese
Una raccolta di litografie, serigrafie e disegni degli elementi centrali del museo romano: la terrazza, le passerelle, l’auditorium, la vetrata del foyer, la luce e l’acqua. Questo è Macro Odecq, libro in edizione superlimitata di Odile Decq – l’architetto francese che questo museo ci ha messo 10 anni a concepirlo e realizzarlo – presentato il […]
Una raccolta di litografie, serigrafie e disegni degli elementi centrali del museo romano: la terrazza, le passerelle, l’auditorium, la vetrata del foyer, la luce e l’acqua. Questo è Macro Odecq, libro in edizione superlimitata di Odile Decq – l’architetto francese che questo museo ci ha messo 10 anni a concepirlo e realizzarlo – presentato il 27 novembre a Roma nell’auditorium scocca dello stesso Macro. Edito nel 2010 da Bernard Chauveau Editeur, il libro é prodotto in sole cento copie numerate e firmate dall’autrice e contenuto in un elegante scatola di stoffa nero pece, venduto alla modica cifra di euro ottocento. Una chicca per veri appassionati e per pochi eletti, in questi tempi magri. Una presentazione che é stata solo un pretesto, perché in realtà il tema dell’incontro aveva come titolo Ragionando di musei.
Ma qual é il senso di presentare un cahier d’artiste come questo in un periodo tanto delicato per il museo d’arte contemporanea della capitale? Il discorso infatti si è poi allargato, e la conversazione in quella capsula arancione che del museo sembra essere il cuore ha preso una piega diversa: a parlarne, di musei, c’erano anche Achille Bonito Oliva, Giovanna Alberta Campitelli, Bartolomeo Pietromarchi e, in collegamento via skype da New York, Hans Ulrich Obrist. La Decq ha raccontato il museo con un power point paragonandolo ai suoi lavori più recenti – il ristorante Phantom dell’Opera Garnier di Parigi e il FRAC Rennes, fotocopia ingrandita del Macro –, Bonito Oliva si è interessato al suo rapporto con la città, alla sua scrittura espositiva, al suo essere cerniera tra le preesistenze. Obrist invece si è perso in un monologo autoreferenziale sul concetto di opera d’arte totale e di dialogo globale, mentre Bartolomeo Pietromarchi sulla trasformazione di un’idea forte e sul bisogno di continuità e stabilità.
Affascinante ascoltare dalla Decq la genesi e la storia tormentata che l’hanno portata alla creazione di questo museo, in seguito alla vittoria di una competition internazionale in due fasi, e alla necessità primaria di dotare la città di Roma di un contenitore per il contemporaneo capace di riempire un vuoto urbano e di ricucire un tessuto. Il suo lavoro si è infatti concentrato maggiormente sul contenuto, pochissimo sui fronti stradali: a lei va dato il merito di aver evitato la sacralità dell’ingresso, incuneandolo in un corner nascosto da un giardino orientale, sovrastato da un caffè sospeso. La sfida principale consisteva nel lavorare sulla sovrapposizione di layers per superare il salto di quota che intercorre tra via Reggio Emilia e via Cagliari. Inoltre, importante per la Decq era creare una scatola trasparente, che accogliesse l’arte in tutte le sue forme, una scatola dotata si di carattere architettonico proprio ma che non sovrastasse il contenuto da ospitare. Sinonimo di grande sensibilità oltre che di lungimiranza l’aver pensato a predisporre nel museo anche due appartamenti, ora residenza per artisti stranieri. Altro espediente riuscito, la scelta di posizionare il percorso su una passerella aerea che consente diversi punti di vista sulla collezione: così facendo lo spettatore si trasforma in attore ed interagisce con le opere esposte, spesso di grandi dimensioni. Insolita l’attenzione dedicata dalla progettista per le futuristiche toilette, dichiaratamente ispirate al film Playtime di Jacques Tati.
Il Macro ha anche il merito di aver ridato al quartiere uno spazio pubblico, aperto, vivo, ricreando in copertura una “tipica piazza italiana in quota” svincolata dal museo e caratterizzata da un ristorante e una fontana, dimostrazione di attenzione ai bisogni i un pubblico diverso, che è definitivamente uscito dall’anonimato per farsi esigente e spesso colto. Questo non fa che affermare una grande verità: che l’arte è sempre pubblica, cioè non è di chi la fa ma di chi la riceve.
– Giulia Mura
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