Dialoghi di Estetica. Parola a Vittorio Gallese

Professore ordinario di Fisiologia presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Parma, Vittorio Gallese è il protagonista di questo nuovo dialogo. Come noto, è al Gruppo di Fisiologia di Parma che si deve la scoperta dei neuroni specchio. Da qualche anno, gli interessi del gruppo di Parma si sono rivolti a questioni tradizionalmente indagate dall’estetica, dalla filosofia e dalla storia dell’arte e, più di recente, dalla neuroestetica.

Professor Gallese, quando, e per quale motivo, ha iniziato a occuparsi di questioni inerenti all’arte e all’estetica?
Ho iniziato a interessarmi al rapporto tra Arte e Cervello grazie al tema dell’empatia, da me esplorato da molti anni in relazione alla cognizione sociale, soprattutto a partire dalla nostra scoperta dei neuroni specchio [una particolare classe di cellule nervose, originariamente visualizzate nella corteccia premotoria ventrale del macaco, che si attivano sia quando la scimmia esegue uno specifico atto motorio sia quando osserva un altro individuo – scimmia o uomo – eseguire un atto motorio identico o simile, N.d.R.].
La scoperta di autori come Robert Vischer, che nella seconda metà del XIX secolo avevano teorizzato un rapporto tra empatia (Einfühlung) ed esperienza estetica, mi convinse che questo tema potesse essere affrontato anche con l’approccio delle neuroscienze cognitive. Secondo Vischer, le forme simboliche acquisiscono significato prima di tutto grazie al proprio contenuto antropomorfo. Grazie alla risonanza della propria immagine corporea, l’osservatore è in grado di stabilire una relazione con l’opera d’arte. Queste e altre riflessioni mi spinsero a pensare all’arte come a una forma mediata di intersoggettività. Ciò fa dell’arte e dell’esperienza estetica ambiti naturalmente connessi ai miei precedenti temi di ricerca.
Un secondo aspetto che mi ha convinto a occuparmi di arte ed estetica è il tema del rapporto tra cervello, corpo e i diversi piani di “realtà” da noi costantemente abitati. Abbiamo il mondo “reale” da noi percepito online nella quotidianità; la sua narrazione da parte dei mezzi di comunicazione; e, infine, la rappresentazione che del mondo fa l’arte attraverso le sue finzioni narrative. Quale rapporto intercorre tra questi diversi piani e come li risolve il nostro cervello? Da questo punto di vista, le neuroscienze cognitive non solo possono occuparsi di arte, ma direi che devono farlo, se hanno l’ambizione di studiare in modo esaustivo con il proprio approccio e linguaggio di descrizione la condizione umana. Per questo motivo ho iniziato recentemente a occuparmi anche di linguaggio cinematografico in collaborazione con Michele Guerra, studioso di cinema all’Università di Parma, e di finzione narrativa letteraria con Hannah Wojciehowski, studiosa di letteratura all’Università di Austin, in Texas.

Lucio Fontana

Lucio Fontana

Crede che il suo approccio a questioni lungamente dibattute come la percezione e l’apprezzamento delle opere d’arte sia inquadrabile nel framework teorico della cosiddetta neuroestetica, se ne esiste uno che già possa essere considerato una sorta di paradigma?
Il collega Semir Zeki, oltre a essere uno dei più importanti scienziati della visione, è stato un pioniere in questo campo. Quando lavoravo a Tokyo nei primi Anni Novanta col neurofisiologo Hideo Sakata sul tema di come il cervello trasformi l’aspetto fisico di un oggetto manipolabile negli schemi motori necessari per interagire con lo stesso oggetto, ricordo che Hideo mi parlava delle sue discussioni con Zeki su Cézanne e il concetto di “primitive volumetriche”. È a Zeki che si deve in primis l’apertura di questo nuovo filone di ricerca, da lui appunto definito “neuroestetica”.
Ciò detto, dobbiamo aggiungere che le neuroscienze cognitive sono innanzitutto un approccio metodologico. Le tecniche oggi a nostra disposizione comprendono la registrazione di singoli neuroni, lo studio dell’attività cerebrale con le tecniche di elettroencefalografia (EEG) e di brain imaging come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e lo studio dei pazienti. Tutti questi approcci ci consentono di porci domande molto diverse sul rapporto tra cervello ed esperienza o tra cervello, percezione, azione e cognizione.
Similmente, se l’oggetto del nostro studio è il rapporto tra cervello, l’espressione artistica e la sua ricezione da parte di chi ne fruisce, possiamo farlo ponendoci quesiti molto diversi. Se la neuroestetica costituisce un paradigma, direi che è soprattutto un paradigma metodologico, che può condurre a esiti molto diversi fra loro. Alcuni colleghi cercano nel cervello l’area o i circuiti cerebrali ipoteticamente responsabili del nostro senso estetico del bello. Altri, come il sottoscritto, cercano di decostruire la nozione di esperienza estetica, indagandone gli aspetti condivisi con la percezione di oggetti non intrinsecamente artistici. Questo mio nuovo filone di ricerca ha le sue premesse teoriche nel saggio scritto con lo storico dell’arte David Freedberg e consiste proprio nell’iniziare l’indagine scientifica mettendo tra parentesi lo statuto artistico dell’immagine.

David Freedberg, The Power of Images

David Freedberg, The Power of Images

Può raccontarci com’è successo che uno storico dell’arte di fama come David Freedberg della Columbia University sia stato coinvolto nell’esperimento che è poi confluito nell’articolo di Umiltà e colleghi, Abstract Art and Cortical Motor Activation: an EEG Study?
Nel 2005 lessi il libro di David Freedberg The Power of Images, dove l’autore rivendicava un ruolo fondamentale alle emozioni nell’esperienza estetica. Iniziammo una lunga corrispondenza e, infine, lo invitammo a Parma a tenere un seminario. Da quell’incontro nacque l’idea di scrivere un lavoro insieme, che poi pubblicammo su Trends in Cognitive Sciences nel 2007: Motion, Emotion and Empathy in Aesthetic Experience. Quell’articolo dettava, in pratica, l’agenda per future ricerche empiriche che abbiamo successivamente intrapreso e che continuano. L’articolo di Alessandra Umiltà pubblicato l’anno scorso e da lei ricordato rappresenta il primo concreto passo in quella direzione.

Può spiegarci in breve cosa vi proponevate di dimostrare in quell’articolo del 2012?
Dobbiamo partire dal concetto di esperienza visiva di un’immagine. La ricerca neuroscientifica – e da questo punto di vista il nostro gruppo di Neurofisiologia dell’Università di Parma, fondato e guidato per molti anni da Giacomo Rizzolatti, ha dato un contributo – mostra chiaramente come la visione sia un processo multimodale che implica l’attivazione di circuiti cerebrali non solo “visivi” ma anche sensori-motori, viscero-motori e affettivi. I neuroni specchio sono stati da me interpretati come una delle molteplici espressioni neurali di un meccanismo funzionale di base del nostro sistema cervello-corpo, da me definito “Simulazione Incarnata” (Embodied Simulation). Le stesse strutture nervose coinvolte nell’esecuzione attiva di azioni o nell’esperienza soggettiva di sensazioni ed emozioni sono attive anche quando tali azioni, emozioni e sensazioni sono riconosciute negli altri. La simulazione incarnata, inoltre, si attiva anche quando le azioni, emozioni e sensazioni percepite sono raffigurate come immagini statiche.
Secondo la nostra ipotesi del 2007, un elemento fondamentale della risposta estetica alle immagini – e quindi anche alle immagini artistiche – consiste nell’attivazione di meccanismi di simulazione incarnata delle azioni, emozioni e sensazioni corporee in esse raffigurate. I meccanismi di rispecchiamento e la simulazione incarnata possono fondare empiricamente il ruolo fondamentale dell’empatia nell’esperienza estetica secondo due modalità complementari. La prima modalità concerne la relazione tra i sentimenti empatici suscitati nell’osservatore dalla simulazione del contenuto dell’opera d’arte, cioè le azioni, emozioni e sensazioni in essa ritratte, o attivata in modo associativo nell’osservatore dal contenuto artistico stesso, risvegliando le memorie implicite e l’immaginazione dell’osservatore. Questo aspetto può essere concepito come il “cosa” dell’esperienza estetica incarnata.
La seconda modalità riguarda la relazione tra i sentimenti empatici suscitati nell’osservatore dalla simulazione e la qualità dell’opera d’arte nei termini delle tracce visibili dei gesti espressivi dell’artista, come le pennellate, i segni dell’incisione, e più in generale i segni dei movimenti della sua mano. Possiamo riferirci a questa componente come al “come” dell’esperienza estetica incarnata. Secondo la nostra ipotesi di partenza, anche quando l’immagine è priva di contenuti direttamente raffiguranti il corpo, come nel caso dei tagli sulla tela di Lucio Fontana oggetto del nostro esperimento, nell’osservatore avviene una simulazione, la simulazione del gesto dell’artista.

Tino Sehgal alla Biennale d'Arte di Venezia 2013 - photo Italo Rondinella

Tino Sehgal alla Biennale d’Arte di Venezia 2013 – photo Italo Rondinella

Ritiene che ci siate riusciti? Siete soddisfatti dei risultati  sperimentali ottenuti?
L’esperimento è stato condotto utilizzando l’EEG ad alta densità. Abbiamo misurato il grado di attivazione del sistema motorio degli osservatori, rilevato come desincronizzazione del ritmo µ in corrispondenza delle cortecce motorie, durante l’osservazione di opere di Lucio Fontana raffiguranti tagli nella tela e di stimoli di controllo in cui i tagli erano sostituiti da linee della stessa lunghezza e larghezza. Tutti i partecipanti all’esperimento hanno mostrato l’attivazione motoria solo per le opere di Fontana e non per gli stimoli di controllo. Un altro aspetto molto interessante dello studio è la dimostrazione che questo effetto avviene indipendentemente dalla conoscenza delle opere da parte degli osservatori o al loro riconoscimento come opere d’arte. È la prima dimostrazione elettrofisiologica del coinvolgimento del sistema motorio corticale in risposta all’osservazione di opere d’arte astratta statiche, anche in assenza di qualsiasi esplicita rappresentazione di corpo in movimento.
Devo aggiungere che molto probabilmente lo statuto artistico dei tagli osservati è irrilevante per evocare la simulazione del gesto che li ha prodotti. Voglio dire che anche se avessimo mostrato tagli sulla tela fatti da noi, avremmo ottenuto verosimilmente gli stessi risultati. Ciò significa che quando ci poniamo di fronte ad un’immagine che ha queste caratteristiche, una componente essenziale della nostra esperienza di quella immagine consiste nel simulare il gesto espressivo che l’ha creata.

Questa, però, non è che una delle componenti di un’esperienza così complessa come quella estetica…
Ovviamente. Quando entriamo in un museo o in una galleria d’arte, non ci poniamo di fronte a una semplice immagine, bensì a un’immagine che trova la propria giustificazione nell’essere collocata in quello spazio in quanto opera d’arte. La nostra fruizione dell’opera d’arte è certamente mediata cognitivamente: la qualità della nostra fruizione estetica è influenzata dalla nostra cultura e dai canoni estetici che la informano, dall’ambiente in cui siamo stati educati, dal grado di expertise e famigliarità che abbiamo nei confronti dell’opera di fronte a cui ci poniamo. La nostra attuale concezione dell’arte e di chi la produce sono il prodotto di una lenta evoluzione e costruzione culturale. Ci sono voluti secoli perché iniziassimo a distinguere certi manufatti riservandogli una collocazione e una valutazione speciali, identificandoli come il prodotto dell’attività creatrice di una particolare categoria di persone chiamate artisti. Quelle che oggi chiamiamo Belle Arti sono il risultato di una costruzione eminentemente socio-culturale. Ciò, tuttavia, non significa che anche questi aspetti non possano diventare oggetto di un’indagine neuroscientifica.

Semir Zeki, Inner Vision

Semir Zeki, Inner Vision

Una domanda rivolta all’uomo, piuttosto che allo scienziato. Crede davvero che questioni che discipline come l’estetica, la filosofia dell’arte, la critica e la storia dell’arte si affannano da millenni – con alterne fortune – cercano di delimitare e definire possano essere riconsiderate sotto una luce diversa grazie allo studio del cervello e all’utilizzo di metodiche altamente avanzate come quelle di cui si serve lei insieme ai suoi collaboratori di Parma? Nel celebre Inner Vision, sorta di manifesto della neuroestetica, Zeki si affretta subito a precisare che il suo “non è un libro sull’arte, quanto piuttosto un libro sul cervello”. Come la pensa a tal proposito? Comprendere come l’essere umano reagisce di fronte a determinati oggetti che definiamo opere d’arte è solo un ulteriore mezzo per studiare il funzionamento del cervello?
Oggi molti studiosi delle scienze umane valutano il crescente interesse manifestato dalla ricerca neuroscientifica nei confronti dell’arte e dell’estetica come un’indebita ingerenza o, nella migliore delle ipotesi, come un approccio dallo scarso o nullo valore euristico. Credo che si sbaglino profondamente. Recentemente, nel corso di un dibattito multidisciplinare al Museo Guggenheim di Venezia sull’opera dell’artista contemporaneo Tino Seghal, in occasione dell’inaugurazione della Biennale, uno storico dell’arte tedesco mi ha chiesto se mi occupavo di arte come neuroscienziato per “nobilitare” le neuroscienze!
Il punto non è usare l’arte per studiare il funzionamento del cervello, ma studiare il sistema cervello-corpo per comprendere cosa ci rende umani e in che modo. Date queste finalità, l’approccio neuroscientifico all’arte e all’estetica non è solo legittimato, ma direi che è un atto dovuto. Sono profondamente convinto che le neuroscienze cognitive oggi offrano un nuovo approccio allo studio di cosa significhi essere umani.

In cosa consiste precisamente questo approccio?
Credo che sia imprescindibile e che consenta di ridefinire, se non risolvere, molte delle questioni che le cosiddette scienze umane affrontano da sempre. Ritengo, anzi, che le neuroscienze cognitive siano esse stesse “scienze umane”, anche se studiano l’uomo con strumenti di indagine diversi, rivolgendo le proprie domande non solo all’individuo, ma anche a sue componenti sub-personali come il cervello o i neuroni. Questo tipo di ricerche deve essere condotto in un’ottica di collaborazione multidisciplinare, senza cedere alle tentazioni di una sorta di imperialismo neurodeterminista.
Pur essendo uno scienziato, non sono uno scientista. Il livello di descrizione offerto dalle neuroscienze cognitive è necessario ma non sufficiente. Dobbiamo partire dal tema dell’esperienza degli individui, decostruirla, naturalizzarla studiandola con l’indagine sub-personale propria delle neuroscienze, e utilizzare i risultati così ottenuti per ridiscutere il livello individuale-personale da cui siamo partiti. Non mi sognerei mai di studiare da un punto di vista neuroscientifico la mente o l’arte prescindendo dalle conoscenze che su questi temi ci offrono discipline come la filosofia o la storia dell’arte. Questo è il motivo per cui le mie ricerche empiriche su queste tematiche “di confine” nascono quasi sempre da un lungo studio preparatorio multidisciplinare che si avvale della collaborazione con studiosi delle scienze umane. Non dobbiamo temere questo approccio, ma valutarlo criticamente dopo averlo approfondito. Forse dovremmo tutti imparare da grandi figure del passato come Aby Warburg che, pur essendo un grande storico dell’arte, già più di cento anni fa trasse grandi ispirazioni dal confronto con biologi come Darwin e Semon o fisiologi come Hering.

Vincenzo Santarcangelo

http://www.unipr.it/arpa/mirror/english/staff/gallese.htm

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Vincenzo Santarcangelo

Vincenzo Santarcangelo

Vincenzo Santarcangelo insegna al Politecnico di Torino e allo IED di Milano. Membro del gruppo di ricerca LabOnt (Università di Torino), si occupa di estetica e di filosofia della percezione. È direttore artistico della rassegna musicale “Dal Segno al Suono”,…

Scopri di più