Opere come bene rifugio, ma i risparmiatori italiani preferiscono investire sul breve periodo. Talk ai Frigoriferi Milanesi con Open Care: per individuare connessioni tra alta finanza e mercato dell’arte
L’80% dei risparmiatori italiani sostiene di avvertire l’esigenza di investire sul lungo periodo. Ma il 75% dei capitali investiti – parliamo più o meno di 2.800 miliardi di euro – se ne va in prodotti finanziari a breve durata: con le aste per i bot semestrali e annuali letteralmente prese d’assalto, nonostante le rendite garantite […]
L’80% dei risparmiatori italiani sostiene di avvertire l’esigenza di investire sul lungo periodo. Ma il 75% dei capitali investiti – parliamo più o meno di 2.800 miliardi di euro – se ne va in prodotti finanziari a breve durata: con le aste per i bot semestrali e annuali letteralmente prese d’assalto, nonostante le rendite garantite diano numeri da prefisso telefonico. Si apre con i dati forniti da Banca Mediolanum la chiacchierata sugli incroci tra arte e finanza che anima i Frigoriferi Milanesi, serata organizzata da Open Care che mette attorno al tavolo Roberto Citarella di HSBC – attualmente la prima banca europea per capitalizzazione – e Maria Adelaide Marchesoni di ArtEconomy24, il braccio artistico analitico de Il Sole 24Ore.
I numeri, implicitamente, raccontano dell’atteggiamento di un Paese che resta tra i primi bacini mondiali di approvvigionamento per il mercato dell’arte, riserva di caccia dove mettere a segno buoni – quando non ottimi affari – ma dove la fiducia da parte del mercato locale non è delle più solide. Peccato: perché i numeri parlano di una situazione globale con performance piuttosto buone, se è vero che il confronto tra dati pre-crisi e post-crisi (pare che ormai ci siamo) raccontano di volumi di vendita più alti oggi rispetto al quinquennio 2004-2008; con le aste per opere superiori al milione di euro che, tra 2012 e 2013, hanno aumentato gli affari del 4% sul contemporaneo e dell’1,8% sul moderno. Salvo registrare un crollo verticale (33,7%) nei ricavo per l’antico. Spendere nell’arte del nostro tempo è una buona idea? Cento dollari investiti nel 1999 in Gerhard Richter oggi ne valgono 658, la stessa cifra spesa in Jeff Koons è calata – al netto delle ultime aste di New York, i cui editi sono ancora tutti da metabolizzare – appena 75. Un ottovolante di emozioni, insomma, sul quale è bene salire ma con le cinture allacciate. Guardando magari al fatto che l’80% delle opere che finiscono in asta costano sotto i 5mila dollari, e muovono oggi appena il 5% degli affari del settore. Un panorama che per caratteristiche intrinseche – di trasparenza innanzitutto: impossibile avere coscienza delle transazioni che avvengono nelle gallerie – resta fatalmente legato al fai da te. Se è vero che le grandi banche d’affari difficilmente consigliano ai propri investitori di mettere soldi in arte e molto raramente dispongono di strumenti e fondi di investimento ad hoc.
Il tutto fotografato oggi, in una situazione di feroce e costante mutamento. Con i Paesi che consideriamo emergenti in realtà poco appetiti da un mercato finanziario che comincia a ritenerli troppo solidi per poter rischiare – e quindi guadagnare – e le disastrate economie del Vecchio Mondo che invece riattizzano sopiti entusiasmi.
– Francesco Sala
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