Qual è il rapporto fra educare e insegnare, nella tua idea e nella tua prassi di scuola?
La scuola è un luogo speciale, esistente fin dall’antichità, che si fonda su una relazione umana specifica: uno scolarca comincia un movimento, di pensiero o fisico, che gli scolari assumono in sé, sviluppandolo. Non è possibile una scuola non dialogica. È come una leva: per potersi muovere necessita del contrappeso, altrimenti si ha la stasi. In alcuni momenti, si deve cercare di scorgere quale modello seguano gli scolari, e soprattutto si devono suggerire loro delle strade che li possano portare a verificare la fedeltà al loro modello. Tutto questo deve necessariamente tenere conto di una solitudine che non va fugata attraverso lo stare insieme: al contrario, essa va espressa, occorre comprenderla in maniera profonda. Il fine della scuola è la conoscenza: un’esperienza profondamente personale, interiore, soggettiva. A scuola si scoprono cose che risuonano in una maniera talmente intima che è impossibile condividerle appieno.
Durante l’ultima edizione di Màntica, hai tenuto il corso di drammaturgia chiamato Scuola Cònia.
Io sono una didatta, la mia opera è creare scuole. Esse si formano nel tempo attraverso un incontro regolare, possibilmente lungo: la scuola è una prassi di studio e di prova fisica, che ricorre e acquista una struttura nella periodizzazione del suo incontrarsi. In questo caso abbiamo lavorato per soli dieci giorni, ogni giorno per sette ore. È stato un corso di drammaturgia, ma fatto al modo di una scuola: si è creato facendolo. Io parto sempre con un’idea molto chiara e al contempo suscettibile di metamorfosi, derivante dall’incontro con le persone che formano la scuola. C’è una decisione, al fondo: porre un ritmo nel tempo, attraverso il quale si riesce a imprimere un freno all’indistinzione, all’indifferenza.
Vengono proposte delle materie su cui lavorare…
Non sono materie che si possano trovare in istituzioni accademiche. La prima è Posizione spaziale dei soggetti e ginnastica: indica l’importanza della consapevolezza soggettiva di abitare e stare fisicamente in un luogo. Ciò è legato alla drammaturgia: quando si scrive un dramma è necessario sapere dove sta chi lo pronuncia, che rapporto ha con il luogo. La ginnastica a mio parere è una disciplina nobile, per il suo elementare assestarsi, porsi in piedi sopra al suolo. La posizione eretta di per sé è drammatica, non naturale: fin dall’antichità, ha rappresentato un gesto di rottura rispetto al destino spaziale che prevedeva per noi, considerata la nostra struttura ossea, un andamento da quadrupedi. Alzandoci abbiamo potuto vedere di più, l’orizzonte è diventato più alto, e al contempo ci siamo fatti vedere di più: siamo maggiormente divenuti prede. La ginnastica si pone dunque come disciplina che rimette in piedi nella direzione della consapevolezza. Nel nostro caso, essa implementa la conoscenza del peso drammatico e drammaturgico che ha il corpo sul palcoscenico. È un appuntamento con la verità: ci sono preparazione e ripetizione, ma in essa non si rappresenta, si fa veramente una azione. Non c’è alcuna separazione tra pensiero critico e fisicità: il pensiero è un tutt’uno con il corpo. Per questo motivo mi interessa la danza: quella canonica, formalizzata, non quella libera.
Sì. In questo periodo mi interesso alla Grammatica storica delle arti figurative di Alois Riegl, nella quale l’arte figurativa è considerata una forma di competizione con la natura: proprio come la conquista della stazione eretta di cui si parlava poco fa.
Nella tua scuola, in programma c’è anche la Psicologia della durata.
La drammaturgia fa parte di una delle arti transitorie: quelle che non restano, al contrario di pittura o scultura. Come la musica, quest’arte ha una durata, e poi a un certo punto smette, finisce. Le arti transitorie condividono con lo spettatore la durata: una linea dinamica che occorre formare e dosare consapevolmente. È necessario che essa sia propria e che possa essere proposta. In quel momento, ciò che conta è il tempo della rappresentazione, non quello reale: se è quest’ultimo a prevalere, significa che quello che accade sul palcoscenico non incide significativamente sulla percezione dello spettatore. Per scrivere un dramma occorre rendersi conto concretamente di cosa siano la durata e la presenza, di cosa significhi consumare il tempo in scena.
Da molto tempo stai lavorando a un “manuale di tecnica drammatica secondo il modo di una scuola”.
È un libro che ambisce a creare delle scuole che si basino su di esso: un manuale con esercizi pratici e discorsi. In esso mi rivolgo a ragazzi: qualcuno che immagino smetta di considerare la propria vita e quello che vi ha trovato come qualcosa di dato, di stabilito, di già deciso. Qualcuno che abbia voglia di provare a inventare un altro tempo.
Per concludere: in cosa consiste il tuo progetto Ritagli dei giornali?
È una cosa diversa dal teatro: usa il linguaggio dell’arte figurativa. Ho creato una quarantina di quadri destinati all’esposizione: sono estrazioni di figure dalla carta stampata. Le ho ritagliate e incorniciate. Su ciascuno di essi ho scritto un giudizio. Espongo i quadri su plutei che ho fabbricato, una sorta di banchi medievaleggianti. I quadri sono appoggiati su questi piani inclinati, e non alle pareti, portando a una fruizione simile a quella che si ha con un libro antico. Sono immagini basse, tratte dai giornali: quelle che il giorno dopo si buttano via. È come volerle fermare dal flusso immane della quantità, e volerle dominare.
Michele Pascarella
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