Rivoluzionare l’arte
Un bel murale che celebra un martire del popolo. Ecco, nel 2013 è quel che c’è di peggio, sia per l’arte che per la politica. Bando ai temi, alle illustrazioni. La rivoluzione va praticata, non raccontata. E l’arte può contribuire soltanto se non scimmiotta malamente altri linguaggi.
Da alcuni anni Istanbul è diventata una mèta privilegiata per la cultura e in particolare per l’arte contemporanea. Lo ha testimoniato, ad esempio, la 13esima edizione della Biennale. Al fascino storico della città, cioè, si è unito quello dell’attualità architettonica, enogastronomica, urbanistica ecc. Ora però la situazione politica è assai instabile e durante l’estate si sono verificati pesanti scontri di piazza.
In questo scenario ha fatto breccia l’iconica protesta di Erdem Gündoz, lo Standing Man (Duran Adam in turco) di Gezi Park, subito imitato da decine di altre persone. Una maniera per manifestare il proprio dissenso esclusivamente tramite la presenza fisica, con il corpo immobile, eretto, imperturbabile. I precedenti non mancano, dall’ambito artistico (Kimsooja, A Needle Woman, 1999-2001) a quello politico (il cosiddetto Tank Man in piazza Tiananmen nel 1989). Ma cosa ci dice questa posizione da un punto di vista eminentemente artistico? In cosa si distingue da un sit-in, dalla resistenza passiva di gandhiana memoria? È arte o attivismo? Ha senso distinguere i due àmbiti e, se sì, con quali criteri e strumenti lo si può fare? È sufficiente citare Joseph Beuys e lo slogan “l’arte è vita” e viceversa (o “il personale è politico” e viceversa) per delegittimare ogni tentativo di distinzione?
Nel 2005, proprio a Istanbul, alla nona edizione della Biennale curata da Charles Esche e Vasif Kortun erano esposte innumerevoli opere dal taglio politico, in particolare video realizzati con un approccio documentari(stic)o. Un caso esemplare che fa emergere tre ordini di problemi generali. In primo luogo, il medium: si trattava sovente di opere in cui emergeva palesemente l’ignoranza, da parte dei loro autori, della grammatica e della sintassi cinematografica. Anche e soprattutto quando si intende scardinare un linguaggio, quando ci si vuole gettare in un corpo a corpo con esso, occorre conoscerne a fondo le norme che lo regolano e lo strutturano. In caso contrario, e nella fattispecie, il risultato è: video noiosi, didascalici e muti. In secondo luogo, il contesto: parliamo di una biennale, cioè – magari suo malgrado – di un luogo, di un evento nel quale si consuma quella che Slavoj Zizek chiama “trasgressione intrinseca”, gramscianamente organica al sistema (dell’arte) e alla sua sopravvivenza. In terzo luogo, il contenuto: è la questione più importante. Siamo certi che l’arte spenda efficacemente in politica il proprio capitale simbolico quando fa della politica stessa il proprio contenuto esplicito (il riferimento alla pornografia è voluto)? No, ne sono convinto; penso invece che l’arte sia politicamente efficace quando utilizza il proprio linguaggio e i propri mezzi per fare politica e non illustrazione decorativa.
Piccolo inconveniente, ovvero la domanda: “E allora che cos’è l’arte?”. Mi convincono poco i tentativi definitori a carattere contenutistico (Jean Clair) o analitico-definitorio (Arthur Danto, in una certa misura). Propendo piuttosto per l’approccio trascendentale proposto da Marco Senaldi – attenzione: la domanda succitata così perde i sensi – e dunque per porre al centro la capacità dell’opera d’arte non naïf di scuotere il reale, di sollecitare le contraddizioni, di essere conflittuale e non conciliante. Occorre sostare il più a lungo possibile sul crinale dell’indecidibile e stimolare una riflessione in-finita. Non suggerire, imbeccare, rassicurare il fruitore. Bisogna riuscire a rendere la vita difficile al lavoro della sussunzione, costringendo il sistema ad affrontare l’ennesimo cortocircuito, amplificabile grazie alla genetica disponibilità da parte dell’arte contemporanea all’autoriflessione (Joseph Kosuth) e al revisionismo (Hal Foster). Tutto ciò per dire che è possibile – nonché doveroso – restituire il primato alla pratica e – perché no? – all’“ottimismo della volontà” (Hegel): non sbaglia Debord quando scrive che “nel mondo realmente rovesciato il vero è un momento del falso”, ma sono certo che debbano ontologicamente esserci finestre spazio-temporali interstiziali nei/durante i quali l’azione micro/macro-sovversiva è possibile (e doverosa, ripeto).
Ora, se l’arte tiene fede alla propria contraddittorietà sul piano trascendentale e, in questo momento storico, lavora su temi quali la tolleranza, i diritti umani, la violenza ecc., allora può dire qualcosa di rilevante dal punto di vista politico. Si badi bene: si tratta di decostruire i concetti di tolleranza, diritti umani, violenza, non di chiederne e pietirne rispettivamente la diffusione, l’estensione, la condanna. “La rivoluzione non è un pranzo di gala”, diceva Mao, e per farla val la pena di alienare qualche (presunto) bene borghese.
Marco Enrico Giacomelli
Testo riveduto dell’intervento tenuto il 20 giugno 2013 al seminario “Etica, azione e arte globale” nell’ambito dei “Dialoghi di Estetica. L’arte tra emozione e azione” organizzati dal LabOnt | Università degli Studi di Torino, a loro volta inseriti nel programma della Summer School organizzata dal Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli.
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #15
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