Architettura nuda #14. Valter Scelsi
Puntata numero 14 della rubrica “Architettura nuda”. In questa occasione ospitiamo Valter Scelsi, che ci ricorda la componente esistenziale della nudità e per estensione dell’architettura nuda. Un’architettura che ci svela ciò che permane nella sua finitezza, ovvero il corpo. Un’idea che troviamo in Sartre, che nell’”Essere e il Nulla” dedica un capitolo al corpo, e oggi in Nancy e Agamben.
All’inizio degli Anni Cinquanta Roberto Rossellini elabora Viaggio in Italia, un progetto destinato lasciare un segno nella produzione cinematografica mondiale della seconda metà del secolo. Il film, in un bianco e nero angosciante volutamente privo di contrasti e correzioni, racconta di una coppia, Alex e Katherine Joyce, scesa dall’Inghilterra nel Sud dell’Italia per vendere la villa ereditata da uno zio. George Sanders e Ingrid Bergman nei propri corpi nordici alti e slanciati, chiusi in un’automobile o in giro per una terra di rovine, esprimono e simboleggiano il senso del disagio. La loro storia d’amore consunta e faticosa, più volte sul punto di finire, sembra riprendere vita nella scena finale, come unica reazione possibile all’ineffabilità delle cose. Di ritorno da Pompei, restano bloccati in una processione dove la folla eccitata che grida al miracolo travolge la donna spingendola lontano. Alex corre in suo aiuto abbracciandola, i due confessano di amarsi ancora mentre la processione continua al suono assordante della banda. Così termina il film. Al clamore di quanto accade intorno, marito e moglie si sentono egualmente estranei, inadeguati, e si rifugiano l’una nell’altro con l’atteggiamento di chi, dirà Rossellini, “è sorpreso nudo e si stringe, si stringe all’asciugamano, si stringe a chi gli sta vicino, si copre”.
Poco prima di questo epilogo, i due protagonisti, chiamati alla visione di una tipica meraviglia italiana, il ritrovamento dei corpi di due amanti nell’area archeologica di Pompei, dal bordo dello scavo assistono alla pantomima cinematografica della scoperta. Animata dal frenetico fare degli scavatori, è una scena che procura nello spettatore l’effetto di potenziare la meraviglia per le ciò che compare: le forme di gesso di due corpi umani emerse bianche dalla terra lavica grigia. Svelati, compaiono nudi e abbaglianti, in mezzo alla polvere. Sciolti dalla storia come calchi a cera persa e ricomposti dall’archeologia come pupazzi di cartapesta, i corpi esprimono tutto il pathos raffreddato dei libri di scuola. Anche l’artificio di ricomporre la loro forma, o il simulacro della forma, appare come il trucco di un’epoca passata, fatta di esperimenti magici, di alchimie. Figuranti della tragedia e della storia, le forme di gesso hanno il compito di raccontarci la loro paura, il loro sgomento. È per questo che vengono sottratte a forza dalla loro stessa smaterializzazione, con una pratica alchemica ormai secolare. Sono condannati al continuo mostrarsi perché non possono scomparire, perché la materia concreta intorno è conformata per sempre dalla loro presenza, così come le città fondate dai romani rimangono segnate dal tracciato del castro, dall’ellisse dell’anfiteatro. Stanno nella terra lavica le due figure nude che Ingrid Bergman osserva affiorare, e dalle quali fugge piangendo perché rivede nel destino della coppia di gesso la natura del proprio destino e non resiste a tanta evidenza, ne viene turbata. È la messa in luce (una luce abbagliante, senza rimedio) di segreti composti nell’animo.
La nudità degli amanti, la nudità delle cose e dell’architettura vuole parlare un linguaggio che possiamo avere tutti occasione di ascoltare, se non ce la lasciamo sfuggire, e che è per molti aspetti un esperimento delle gerarchie della realtà, delle sue dinamiche ripetitive. Dove l’emozione è fatto singolare, ma seriale, ripetitivo entro le regole di un certo linguaggio. La nudità, in questa logica di senso, occupa uno spazio preciso nella storia dell’architettura. Così come le costruzioni, tutte, hanno speranza di diventare architettura all’interno di un rapporto tra regole che sono in grado di produrre e norme già esistenti, la nudità, se ravvede una grandezza, lo fa nei propri limiti, nelle proprie assenze. La nudità è la capacità di lasciar parlare lo sgomento, la forza della nostalgia del futuro. La lingua della nudità è la lingua della citazione, dove le citazioni – oltre i nessi – devono parlare, come tali e perché tali. È questo ciò che troviamo – se lo cerchiamo, certo, ma forse anche se non lo cerchiamo – nell’architettura nuda: l’interruzione momentanea dello scorrere naturale e indifferente, lo svelamento di quanto si svolge inavvertito, il richiamo della memoria.
Valter Scelsi
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