Anoressia e bulimia architettonica
Chi si è recato alla mostra “Energy. Architettura e reti del petrolio e del post-petrolio” al Maxxi avrà notato il plastico sferico di un promettente giapponese: Sou Fujimoto. Promettente per due motivi: perché l’edificio, invece di essere saldamente ancorato a terra, era appeso al soffitto attraverso fili quasi invisibili; perché nell’eterea costruzione erano stati inseriti alberi ad alto fusto, senza prevedere che questi ultimi, per poter sopravvivere, avrebbero richiesto profonde vasche, certo inestetiche, per ospitarne le radici.
Si dirà: quello di Sou Fujimoto al Maxxi era un concept poetico che faceva vagamente pensare a un’opera giovanile di Frederick Kiesler, altrettanto flottante nell’aria, che nella metà degli Anni Venti aveva suscitato l’ammirazione e insieme l’ira di Le Corbusier. E in effetti, datagli un’occasione concreta quale il padiglione della Serpentine Gallery, Sou Fujimoto è riuscito a realizzare una struttura reticolare non meno leggera ed eterea di quella esposta al Maxxi, ma questa volta facendola stare perfettamente in piedi. Così come stanno in piedi la maggior parte delle costruzioni realizzate dalla nuova generazione di architetti giapponesi, che vogliono andare oltre il quasi nulla teorizzato da Mies van der Rohe per perseguire una poetica di trasparenza e leggerezza.
Anche se, a dire il vero, si racconta che l’installazione di un altro giapponese, Junya Ishigami, dall’emblematico titolo Architecture as air: Study for château la coste, realizzata in occasione della Biennale di Architettura di Venezia diretta dalla Seijma, crollò in fase di esecuzione quando la sera un gatto entrò nel piccolo cantiere e si mise a giocare con i fili che la facevano stare in piedi.
Sou Fujimoto e Junya Ishigami sono legati alla raffinatissima scuola di Kazuyo Sejima e quest’ultima a Toyo Ito, uno dei due maestri dell’architettura giapponese degli ultimi trent’anni (l’altro è l’insopportabile Tadao Ando, chiuso nel suo monumentalismo sempre più autoritario e retorico). Incarnano una condizione di malessere tipica della società contemporanea: dover vivere in un mondo fatto da troppi oggetti, occupato da infinite cose, pieno di orpelli e inutili decorazioni. A questo eccesso, i discepoli di Ito oppongono la rinuncia formale, l’idealismo, la ricerca della purezza e la dematerializzazione che porta a realizzare pareti spesse un paio di centimetri.
Pur apparendo come il frutto di un’estetica della rinuncia, l’iperminimalismo giapponese richiede tecnologie sofisticate e comporta costi notevoli. Come sa qualsiasi architetto che abbia provato a fare finestre di solo vetro o porte che sembrano scomparire nei muri. Non c’è da stupirsi allora che questi giapponesi, abituati al lusso di un’estetica della privazione, abbiano potuto trovare esagerato e forse disgustoso il progetto dello stadio della Hadid per le Olimpiadi del 2020. Come può essere per un anoressico il dover vivere in compagnia di un bulimico.
Luigi Prestinenza Puglisi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #17
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