La studio visit di un genio. Incontro con Vito Hannibal Acconci
Il maestro Vito Acconci ci ha aperto le porte del suo studio a Dumbo (Brooklyn) per una conversazione. Durante la quale ha ripercorso il suo cammino artistico e i suoi progetti attuali. Anche grazie alle domande fatte dai lettori di Artribune.
Quarant’anni fa il suo lavoro Diary of a Body 1969–1973 ha conquistato l’attenzione mondiale: duecento performance preparate e catalogate minuziosamente. Il tempo che si è aggiunto ha cambiato qualcosa alle sue performance?
Di quegli anni ricordo la Guerra in Vietnam. Fu un evento che mi scosse interiormente e cambiò definitivamente la mia visione degli Stati Uniti. Tolse la maschera alla faccia vigliacca del governo del nostro Paese. Il fulcro della mia serie di performance nacque dall’indignazione verso l’amministrazione pubblica.
Mi sta dicendo che le sue pubbliche masturbazioni ebbero un movente soprattutto politico?
Unicamente politico.
C’è qualche performer interessante in questo presente?
Fare performance, oggi, non ha più senso. Non serve a nulla e non capisco le ragioni di chi le fa. Non posso farti alcun nome perché non conosco nessuno. Ignoro totalmente l’arte di questi giorni.
E perché l’arte di oggi meriterebbe di essere ignorata?
È diventata un business per pochi, roba da ricchi. A me interessa essere al centro di qualcosa, e con l’arte non è più possibile, mentre invece è qualcosa che può accadere facendo architettura e design. Creando nuovi spazi architettonici riesci ad arrivare a tutti.
Parliamo allora dell’architettura di New York. Lei è nato e cresciuto nel Bronx, quindi si è trasferito a Brooklyn. Com’è cambiato il corpo della sua città?
Senz’altro non possiamo dire che il corpo di New York sia diventato più bello. Basti pensare allo scempio della nuova torre a Ground Zero.
Scempio?
La simmetria è uno sbaglio. È un progetto fuori tempo. È una costruzione classica. E questo non è il periodo storico adatto per questo genere di opere. Inoltre è fuori luogo. Hanno scelto un’altezza da guinness che ha peggiorato notevolmente la vista dello skyline. È evidente che il panorama è peggio di prima.
Abbiamo selezionato alcune domande dai nostri lettori. GioFusar si domanda se sia possibile immaginare ancora un futuro per un’arte a zero impatto tecnologico.
Certo che è possibile, ma capisco bene l’attrazione delle persone creative verso i New Media. È naturale che riescano ad attrarre tante menti creative, ovvero curiose. Il mondo virtuale è una meravigliosa realtà. In generale, sono sorpreso che la maniera di utilizzare i Pc sia poco cambiata rispetto ai suoi albori. M’immaginavo un’evoluzione diversa.
Verso quale direzione?
Vedi questo schermo? Quando lavoro al Pc è soltanto davanti a me. Mi aspettavo l’evoluzione di macchine e di schermi tutt’intorno all’uomo e non solo davanti a sé.
C’è un giovane artista, Giò Woodman Lebowsky, che si domanda quanto tempo un emergente deve destinare alla promozione delle proprie opere, frequentare curatori e impegnarsi nella ricerca di spazi museali.
I musei sono posti davvero falsi. Non si può toccare nulla, solo vedere. Come se tutte le opere fossero solo visuali. Davanti a un’opera d’arte, il senso più importante è l’udito. Le grandi opere fanno rumore.
A proposito dell’altra parte della domanda: cosa consiglierebbe a chi le chiede se serve fare il PR di se stesso?
Io sono cresciuto in un tempo totalmente differente. Senz’altro all’inizio della mia carriera non pensavo a promuovere quello che facevo. Fare pubbliche relazioni è un’attività alla quale non ho mai dato valore. Oggi forse è diverso. Non so rispondere. Te l’ho detto, non guardo a quello che succede in questi giorni.
Silvia Urso Falck ci ricorda che la sua prima arte è stata la poesia. Perché ha smesso di scrivere?
Io non ho mai smesso di scrivere. Quando scrivo un progetto, lo considero un momento creativo cruciale. Penso davvero che scrivere sia la cosa che so fare meglio.
Ogni tanto dà un’occhiata alle poesie che scriveva da giovane?
E perché dovrei? So dove sono e cosa c’è scritto. Non ne ho bisogno.
Angela Congiu ci chiede perché abbia abbandonato la Body Art.
Ho bisogno di cambiare. Non m’interessa diventare un esperto di qualcosa. Mi piace cercare di fare cose che non ho mai fatto prima. Non capisco tutta questa curiosità nei confronti di attività vecchie di trenta/cinquant’anni. Assurdo. Ma perché?
Lei non è proprio qualcuno che ama guardare al suo passato…
Il mio passato l’ho bruciato.
Bruciato?
Certamente. Mi piace tenere il mio sguardo verso i miei prossimi progetti. Verso il futuro.
E il futuro di Vito Acconci quali progetti prevede?
Stiamo per inaugurare un tunnel a Swarm Street, nella città di Indianapolis. L’unicità dell’installazione sta nell’illuminazione che segue le auto e le persone quando lo percorrono. Da sopra, dal basso e di lato le luci seguono il movimento di chiunque lo attraversi.
Un progetto in fase germinale di cui ha voglia di parlare?
Un ponte in Tasmania. Sarà come il delta di un fiume.
Come si sviluppa la realizzazione di un’idea di Vito Acconci? Fa tutto da solo o si avvale di un team?
L’architettura è un gioco di squadra. Prevalentemente si tratta di risolvere problemi tecnici e permettere alla propria visione di realizzarsi concretamente. Mi piace discutere con i miei collaboratori, litigare se necessario. Dal conflitto possono nascere tante idee vincenti.
C’è qualche disegno che può farmi vedere?
Sono qui sul tavolo. Il ponte è un percorso che può variare, vedi?
Possiamo pubblicarli o è ancora materiale riservato?
Mostrali pure. Posso fartene una copia. E poi ti metto una freccia. Così puoi capire l’orientamento di ciascuno. Tieni, prendili pure.
Alessandro Berni
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