Joan Baixas. Pittura in scena
Nell’ambito di “Ex Polis - Festival Internazionale delle Arti” diretto da Massimo Mazzone e Marco Maria Linzi, il dibattito culturale multidisciplinare torna a prendere vita a Milano con Joan Baixas, ospite all’Accademia di Brera. Dove un’Aula Napoleonica gremita di studenti e di personalità del mondo dell’arte ha potuto assistere al seminario/racconto dell’artista spagnolo. Ne abbiamo approfittato per incontrarlo e fargli qualche domanda.
Hai collaborato con alcuni tra i più importanti artisti del XX secolo, come Joan Miró, Sebastiẚn Matta, Carlos Saura (per citarne solo alcuni). Non capita a tutti di poter instaurare un confronto artistico con personalità di questo calibro. Come hanno influenzato il tuo percorso?
Queste esperienze sono state la mia università, la mia conoscenza diretta dell’arte. Non ho mai frequentato l’università perché non ho mai avuto un gran feeling con gli ambienti accademici, ho sempre preferito altri tipi di confronti, ed è principalmente dall’esperienza diretta con questi grandi artisti che ho potuto conoscere, imparare, crescere nel mio percorso. La cosa più importante che mi hanno insegnato queste esperienze è che quando un artista ha un lavoro solido, veramente maturo, è molto proficuo e facile lavorare con lui, perché ha una visione chiara del mondo, inequivocabile. Un po’ come accade nel teatro, quando si porta in scena uno spettacolo: si fa una lettura congiunta con l’autore, con la sua visione. E più questa visione è chiara, più l’unione artistica diventa stimolante e arricchente. Mi ricordo che spesso, sorpreso, dicevo a Miró: “Come fai?! La prima idea che ti viene in mente è sempre quella buona, quella giusta!”, e lui mi rispondeva: “È necessario essere molto vecchio per avere piena fiducia nella prima idea”, dove per “vecchio” intendeva raggiungere una certa maturità di pensiero e di lavoro.
E secondo te come si può raggiungere questa maturità, come si “allena” questa sorta di sicurezza e fiducia?
Secondo me è una cosa che si può raggiungere solo attraverso la disciplina, perché la disciplina ha molto a che fare con una sfera fisica, carnale e sensoriale. Non si raggiunge la maturità artistica con percorsi psicologici finalizzati ad aumentare il proprio ego e neppure tramite riconoscimenti sociali di status o di “nome”, ma solo attraverso un lavoro quotidiano costante e grazie all’applicazione di una disciplina della concentrazione. La concentrazione è essenziale, uno stato di felicità. Per un artista è una sorta di nirvana, perché questo stato mentale è in grado di creare una dimensione a parte, esclusiva e profonda.
Nella mia mente ho due immagini molto forti di Miró, una delle quali risale all’ultimo periodo della sua vita, quando era ricoverato in ospedale. Era la prima volta che lo vedevo dopo la nostra collaborazione di cinque anni prima, e sarebbe stata l’ultima volta che gli avrei parlato. Gli chiesi come stava e lui mi rispose: “Adesso sono tutto il tempo magnetizzato”. Per lui era questa la felicità: era totalmente preso dal suo mondo, aveva ormai compiuto il passo attraverso lo specchio. Abitava là, nel suo universo personale, unico. Ecco, questa è un’immagine estrema del concetto di “disciplina”, così come lo intendo.
Mirò non ha mai perso la paura del lavoro, o meglio la paura di perdere l’ispirazione, la creatività più profonda. Quando avevamo deciso di collaborare insieme, c’era stato un periodo di preparazione che era durato circa due anni, in cui ci siamo conosciuti, abbiamo parlato di tutto, della vita e della morte, ci siamo confrontati. Dopo due anni tutto sembrava pronto: avevo costruito le mie grandi marionette e lui le avrebbe dipinte. Ma quando arrivò nel mio studio e vide entrare la compagnia di attori (che avrebbero reso l’azione viva e non statica), si fermò sulla porta, come bloccato. Gli proposi allora di fare due passi e lui accettò. Così, mentre gli altri ci aspettavano nello studio, noi abbiamo camminato per trenta, quaranta minuti, cercando di recuperare la concentrazione. Aveva paura, sentiva il forte senso di responsabilità del suo lavoro, ma poi, quando ha cominciato, una sicurezza straordinaria lo ha avvolto, i suoi gesti erano forti, decisi, come si può vedere nel documentario “Miró, La Claca” [La Claca è il teatro fondato da Joan Baixas a Barcellona, N.d.R.] . Sembra un paradosso: la paura da una parte e la sicurezza dall’altra, eppure sono due facce di un’unica medaglia.
Per un certo periodo della tua vita, hai lavorato molto con le marionette e hai coniato il termine “Teatro Visuale” in relazione anche a questa pratica teatrale, spesso associata a qualcosa di passato, di statico e legato alla tradizione. In che modo hai saputo renderla contemporanea?
Il punto focale di questo territorio artistico è l’animazione, non la presenza diretta in scena dell’attore o del pupazzo. È un’azione che si svolge grazie all’intermediazione di qualcosa che l’attore o il creatore pone tra lui e il pubblico. Non è importante se attraverso l’animazione si dà vita a una a una marionetta, a una figura umana o a un oggetto meccanico: la cosa fondamentale è che questa pratica dà un’intensità maggiore rispetto all’interazione diretta perché entrano in gioco tanti, tantissimi fattori, tanto da diventare un vero spettacolo multidisciplinare. L’animazione è sempre attuale perché utilizza la parte più innovativa di ogni epoca. Nel Barocco, per esempio, venivano impiegati effetti straordinariamente sofisticati che nei secoli sarebbero diventati sempre più tecnologici con l’avvento della Rivoluzione Industriale e sempre più cinematografici nel corso del XX secolo. Questo tipo di teatro è un perfetto connubio tra natura, meccanica e umanità. Tutto il mondo dell’animazione conserva una parte di primitività, legata alla gestualità e al concetto di maschera, ma anche di cultura popolare, sciamanica, magica. Ma allo stesso tempo coltiva anche una parte tecnologica, legata principalmente agli effetti speciali. Il teatro delle marionette è stato per un certo periodo della mia vita la mia specialità: avevo una camionetta con cui mi spostavo di famiglia in famiglia e di paese in paese, ma poi ho preferito non dedicarmi esclusivamente solo a questa pratica, così ho iniziato a renderla più libera anche rispetto ad altre discipline.
A proposito di multidisciplinarietà, tu sei un artista fortemente poliedrico: in oltre quarant’anni di carriera sei stato pittore, direttore teatrale, scrittore… Hai fatto della contaminazione tra le arti una risorsa che hai saputo declinare in ogni tua esperienza. Credi che la multidisciplinarietà sia la strada più fruttuosa da percorrere nella contemporaneità?
Secondo me la multidisciplinarietà è la cosa più naturale e semplice che dovrebbe esserci nell’arte. Piuttosto è il concetto di specialità che trovo “strano”. Mi spiego: non dico che specializzarsi in un linguaggio artistico non sia interessante, ma è in qualche modo limitante, e io non ho mai voluto fermarmi in confini precisi. E’ sempre stata per me un’esigenza, quella di andare oltre i singoli saperi. Nella mia famiglia, invece, ci sono stati diversi pittori che per tutta la vita hanno fatto solo questo. Mio nonno era un professionista del colore, un artista di un’eleganza e di una perfezione assoluta. Realizzava opere molto belle e ancora oggi a me piacciono molto. Ma c’è una differenza: chi nell’arte si dedica per tutta la vita a un’unica specialità, dona sicuramente bellezza e piacevolezza, ma non potrà mai offrire niente di più profondo a livello umano rispetto alle potenzialità di libertà, di sensibilità e di vitalità che possediamo.
Mapamundi è uno dei tuoi progetti che porti in giro per il mondo. È iniziato all’interno delle mura di un carcere per poi incontrare diverse realtà e culture. Come pensi si svilupperà in futuro?
Ci sono alcuni miei progetti – due o tre – che so che mi accompagneranno fino alla morte. Mapamundi è uno di questi. È un workshop che faccio in collaborazione con giovani comuni, non con professionisti di teatro. Lavoriamo insieme per una settimana, in una situazione fortemente sperimentale che ha l’obiettivo di creare un’opera che è sia pittorica che coreografica. Esistono tanti tipi di “mappamondi” (intesi come immagini del mondo) e possono essere geografici, politici, sociali, climatici, economici, etnici… Io vorrei fare invece un Mappamondo del Sorriso. Gente che fa cose insieme e che condivide esperienze fuori dal comune. Ho fatto workshop di Mapamundi in un carcere, a l’Havana a Cuba, a New Delhi, in Russia… Sempre con persone diverse, ognuno con la propria cultura e con le proprie esperienze. Vorrei farne uno anche a Milano prossimamente, sto lavorando all’organizzazione con un teatro della città… Mi piace pensare a Mapamundi come a una sorta di movimento perpetuo, che mai si esaurisce.
So che stai collaborando con Cildo Meireles per la mostra all’Hangar Bicocca. Saranno tutte installazioni di grandi dimensioni e la curiosità su quello che potrete realizzare insieme è tanta… Qualche anticipazione?
Non posso anticipare molto, è ancora un mistero anche per noi! Io e Cildo abbiamo parlato diverse volte, ci stiamo conoscendo, c’è stima fra noi. Dovremo però ancora entrare nel concreto dell’idea, quindi non posso svelare nulla. È un progetto in fase evolutiva e in questa fase è fondamentale avere una relazione e “mettere sulla tavola” tutte le idee, per poi poter arrivare liberamente a una scelta. Come mi ha detto una volta William Kentridge, “la vita è un lavoro di decisione, la cosa importante è avere tante possibilità sulla tavola per poter essere poi libero di scegliere”.
Serena Vanzaghi
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