Alla ricerca dell’individuale collettivo. Oltre il decreto Bray
Prendiamo nota: il decreto Valore cultura ha introdotto le erogazioni liberali supersemplificate fino a 10mila euro. Con la finalità di stimolare il cittadino a “sentirsi parte” e a “prendersi cura” del patrimonio culturale. Ma fermiamoci a riflettere: gli incentivi fiscali possono essere uno strumento necessario per raggiungere il suddetto obiettivo? E sufficiente?
Quanti conoscono, fra enti beneficiari e soggetti donanti (privati, imprese, altro), il già articolato sistema di detraibilità e deduzioni a favore della cultura: contributi, erogazioni, sponsorizzazioni, in denaro e in natura, con tetti o free, vincolati o meno da comunicazioni pre o post, da rendiconti?
Il sistema è complesso, lo sappiamo, ma non per questo carente, tant’è che nel tempo si è gradualmente perfezionato, andando (come nel caso delle donazioni in natura) a colmare una serie di vuoti, pur penalizzando la semplicità d’insieme della formulazione. Addirittura quando nel 2000 uscì l’art. 38, che promuoveva l’integrale deducibilità per le imprese di erogazioni per mostre ed eventi culturali, si pensò di mettere un tetto oltre il quale l’ente culturale avrebbe dovuto restituire il 37% (cioè l’imposta Irpeg, ad oggi non più esistente) del differenziale. Quasi temendo che ci sarebbe stata una “gara” fra mecenati, con il “rischio” per lo Stato dello sforamento, senza contare che un ente culturale avrebbe saputo – a posteriori – se la somma effettivamente utilizzabile era quella che aveva ricevuto. Rischio purtroppo sventato, e sono passati già tredici anni. La storia ci racconta dunque come la leva fiscale, da sola, non sia sufficiente a stimolare la partecipazione diretta, e immaginiamo che la recente normativa non riesca a innescare – in un contesto di grave crisi economica – un’inversione di tendenza.
Ma se non è sufficiente, è almeno necessaria? Oppure il contribuente sa che le tasse pagate producono servizi collettivi, fra cui la tutela e la promozione del patrimonio, e mette a tacere la propria coscienza? E in ogni caso, esiste nel singolo la consapevolezza che la sua contribuzione in termini di imposte dirette (Ires, Irpef, Irap) neppure sfiora le realtà locali, meno conosciute certo, ma pur sempre ossatura del distretto culturale in termini di genius loci, produzioni identitarie, memoria civica, economie di atmosfera per la comunità? Ecco allora che, insieme a una chiara e consapevole informazione riguardo alla tassazione diretta (il contribuente ha diritto di conoscere quanta parte delle sue tasse è finalizzata ai beni e attività culturali), è significativo promuovere strumenti di defiscalizzazione da estendere non tanto nel quantum, quanto nella tipologia, aprendosi per esempio alla membership, che rimane il mezzo insostituibile per coinvolgere e fidelizzare tutti e ciascuno nella costruzione dell’“individuale collettivo”.
Questo percorso educativo non potrà infine trascurare il coinvolgimento delle professioni intellettuali (commercialisti, avvocati, notai in primis) attraverso la costruzione di percorsi formativi mirati per far conoscere la “nicchia” culturale anche come opportunità di lavoro per i giovani e creare occasioni di incontro strutturali fra il mondo professionale e quello culturale.
Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #17
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