Centinaia di morti, in Qatar, nei cantieri per i mondiali 2022. Lo stadio-vagina di Zaha Hadid uccide gli operai-schiavi. Non è affar mio, commenta l’archistar. E spunta la questione morale
Un cammino costellato di cadaveri, quello che conduce il Regno del Qatar verso l’appuntamento con i Mondiali di Calcio 2022. Duecento miliardi di dollari d’investimenti, per le avvenieristiche infrastrutture in cantiere, da cui emerge però un coté luttuoso, tra sfruttamento sociale e irresponsabilità governativa. Sono infatti centinaia i morti sul lavoro già registrati e denunciati […]
Un cammino costellato di cadaveri, quello che conduce il Regno del Qatar verso l’appuntamento con i Mondiali di Calcio 2022. Duecento miliardi di dollari d’investimenti, per le avvenieristiche infrastrutture in cantiere, da cui emerge però un coté luttuoso, tra sfruttamento sociale e irresponsabilità governativa. Sono infatti centinaia i morti sul lavoro già registrati e denunciati da un’inchiesta del Guardian, lo scorso novembre, e poi dai report delle associazioni che difendono i diritti dei lavoratori migranti: tutti morti nei cantieri edili che regaleranno al ricco Qatar ben dodici stadi, dieci architetture nuove e due ampliate.
Le vittime? Arrivano da Nepal, India, Bangladesh, Pakistan, Sri Lanka, Indonesia, Filippine. Forza lavoro a basso costo, in fuga dalla povertà, nella maggior parte dei casi condannata ai soprusi del caporalato: condizioni di miseria e una vita in semischiavitù è quello che si ritrovano in sorte gli immigrati. Fortunati quando si salvano la pelle. Perché nonostante il Qatar stia cercando di dotarsi di una regolamentazione a cui vincolare le imprese, ancora si naviga a vista: dagli alloggi fatiscenti e sovraffollati, alla totale mancanza di sicurezza, passando per gli orari massacranti, la situazione è grave ed irrisolta. Con un bollettino di guerra che negli anni toccherà cifre da brivido.
Sulla questione si è espressa Zaha Hadid, la cui prestigiosa firma ha siglato, insieme al megastudio californiano AECOM, l’enorme impianto sportivo di Al-Wakrah, quello che doveva somigliare alla tradizionale barca dei pescatori di perle e che invece è stato polemicamente associato a un organo genitale femminile. Ma le polemiche vere, per lo stadio-vagina, sono quelle relative alle tante morti bianche, di cui è stato testimone dal 2012. “Non ho niente a che fare con i lavoratori”, ha dichiarato martedì scorso l’archistar irachena, interrogata sul caso durante la cerimonia per la riapertura del suo centro acquatico olimpico a Londra. “Penso sia un problema – se un problema c’è – di cui il governo dovrebbe occuparsi. Spero la cosa si risolva. Io non ho alcun potere”, ha aggiunto. E quando la stampa britannica le ha chiesto se non fosse preoccupata per i tanti decessi, imperturbabile Zaha ha risposto così: “Sì, ma sono più preoccupata per i morti in Iraq, e quindi cosa posso farci? Non la sto prendendo alla leggera, ma penso che sia una questione che riguarda il governo“.
Niente da dire sulla sostanza: la monarchia del Qatar, retta dal giovane Sheikh Tamin bin Hamad al-Thani (proprietario, tra le altre cose de Paris Saint Germain e dei Magazzini Harrods, fratello della sceicca Al-Mayassa, presidentessa della Qatar Museums Authority, super collezionista, considerata la donna più potente dell’art system globale) il problema ce l’ha eccome, se le cifre non mentono. E non è un problema da poco: mancano le normative sul lavoro, mancano i controlli, manca una legge decente sull’immigrazione. E il processo risolutivo non è facile, né breve. Gli architetti fanno i progetti, ma non è semplice entrare nel merito degli appalti alle ditte e della gestione della manodopera, soprattutto in un contesto come quello di un regime non democrartico.
E però, se è vero che non c’è una responsabilità diretta, c’è però la possibilità di un pensiero etico, di una presa in carico. Farsi portavoce di un disagio, chiedere con forza un impegno da parte dei governi, attivare persino una protesta, togliendo il proprio appoggio a un progetto tanto ambizioso e remunerativo, quando rischioso ed opaco: ha senso aspettarsi tutto questo da una star dell’architettura? Daniel Libeskind, per esempio, una posizione in merito ce l’ha. Risuonano oggi, a contrasto con il gelido pragmatismo della collega Hadid, le parole pronunciate un anno fa, durante un’intervista con il britannico Architects Journal: “In primo luogo ci si deve chiedere se un progetto è ‘legittimo’: è giusto che sia costruito? È una domanda molto importante, che tutti i buoni architetti si pongono”. E ancora: “Gli architetti non sono arbitri morali, ma devono avere una moralità. Anche se producono torri luccicanti, se sono moralmente discutibili, io non sono interessato. Non sto facendo del moralismo, tutto questo è già in Vitruvio. Gli architetti devono assumersi la responsabilità per il loro lavoro. (…) Non riesco a separare la geometria formale dal contesto e dalla moralità degli Stati committenti. Non sono interessato a costruire scintillanti piazze per despoti, preferisco lavorare con le sfide e i vincoli di una democrazia piuttosto che al’interno di un sistema uniforme”.
È allora “legittimo” consegnare il progetto di uno stadio da 40mila posti a un Paese che, in nome del prestigio internazionale incarnato da quello stesso edificio, sacrifica la vita di centinaia di lavoratori? Una domanda spinosa, che ha un senso ed un’urgenza vera. Non per Zaha Hadid, evidentemente.
– Helga Marsala
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