Manon Lescaut e La sposa dello zar. Regie a confronto
Le regie, e la mancanza in Italia della figura del “drammaturgo”, sono una determinante della scarsa affluenza di giovani tra il pubblico pagante dei teatri d’opera del nostro Paese? Una riflessione scaturita dalla visione di due opere a Roma e Milano.
A pochi giorni di distanza ho assistito a due “prime” molto attese: Manon Lescaut di Giacomo Puccini al Teatro dell’Opera di Roma e Una Sposa per lo Zar di Nikolaj Rimskij-Korsakov al Teatro alla Scala. Coetanei, più o meno, i registi: Chiara Muti per l’opera di Puccini e Dmitri Tcherniakov per quella di Rimskij-Korsakov. Manon Lescaut è lavoro molto rappresentato, rare invece le messe in scena di Una Sposa per lo Zar: in quella della Scala (coprodotta con lo Staatsoper under den Linden di Berlino), Tcherniakov ha firmato anche le scene, mentre i costumi sono di Elena Zaytseva, le luci di Gelb Filshtinsky e i video dell’équipe della Raketa Media.
Chiara Muti ha dato buone prove come attrice, ma naturalmente sarebbe stato preferibile che il palcoscenico le venisse offerto per un lavoro concertato non da un consanguineo. Riccardo Muti – è noto – ama regie tradizionali in cui i cantanti sono spesso in fila sul boccascena. Tuttavia, ci si poteva aspettare che l’età anagrafica di Chiara Muti la inducesse a una regia meno vetusta. E invece, unica idea che poteva sembrare nuova: quella di leggere la vicenda come un flashback con il sipario che si apre sulla protagonista morente nel deserto della Louisiana, che con proiezioni e scene su tela diventa la stazione delle carrozze di Amiens, ma era stata già vista non molti anni fa a Parma (anche se il flashback era di Des Grieux, dopo la morte di Manon, non della sfortunata protagonista).
Scene (Carlo Centolavigna), costumi (Alessandro Lai) e luci (Vincent Longemare) parevano presi dai magazzini di repertorio di un teatro di provincia. Soprattutto, mancava un’idea di drammaturgia, ossia dare un significato all’azione scenica, nonostante la regista disponesse di tre validi cantanti-attori: Anna Netrebko, Carlo Lepore e Giorgio Caoduro. Difficile esprimere un giudizio su Yusif Eyvazoz (spesso impalato) a ragione anche della complicata situazione del Teatro e della minaccia di scioperi. Eppure Manon Lescaut non pone difficili problemi di drammaturgia (sempre che ci sia un forte elemento di eros, specialmente nel secondo atto). Se si vuole utilizzare un flashback, si pensi al piccolo capolavoro di Stephen Medcalf al Regio di Parma nel 2005 (in cui le scene era sostituite da cornici di specchi). Se si vuol essere innovativi, si pensi all’edizione del 2002 al Lirico Sperimentale di Spoleto, dove il dramma è una gabbia di legno che si stringe sempre di più sui due dissoluti amanti. Suvvia, all’Opera di Roma ci si poteva aspettare qualcosa di meglio di crinoline, parrucche, cieli azzurri in Francia e tramonti rosso fuoco in Louisiana. Senza carica erotica (la grande innovazione del 1893) cosa vuol dire Manon Lescaut al pubblico, soprattutto alle giovani generazioni?
Ben differente La Sposa Zar nelle mani di Dmitri Tcherniakov. Ha suscitato – è vero – le proteste del pubblico più canuto, e più conservatore, della Scala, ma molti spettatori hanno risposto con applausi e ovazioni. L’opera è una delle più “politiche” di Rimskij-Korsakov, tanto che non venne accettata nei Teatri Imperiali e la sua prima assoluta, nel 1899, avvenne a opera di un impresario privato in un teatro secondario di Mosca. Precede l’ultimo lavoro del compositore, la sferzante satira della Corte Imperiale Il Gallo d’Oro. Mostra a tutto tondo un ceto dirigente putrido in una società corrotta tramite una vicenda situata nel 1572, dove si accavallano due vicende: la ricerca di una terza moglie per il vedovo Ivan il Terribile e la corruttela lasciva del Capo della sua milizia. Tcherniakov sposta l’azione ai giorni nostri all’epoca di email, Twitter, alta tecnologia che rende paradossalmente più facile il terrore di massa.
Al fine di rendere lo spettacolo più avvincente, elimina un coro folkloristico al primo atto, accentua l’alcolismo tra le guardie del corpo dello zar e la loro violenza sulle donne. Nella Russia presentata da Rimskij-Korsakov, e da Tcherniakov, solo i due giovani protagonisti sono innocenti, ma vengono schiacciati dagli eventi. Mentre lo zar (che nell’opera compare come personaggio muto per appena un paio di minuti) è, nell’impostazione drammaturgica di Tcherniakov, una pura invenzione tecnologica di una “cupola”, tra cui primeggia la guardia del corpo, convinta che l’Impero “stia andando a rotoli” e necessiti di un leader (meglio se solamente mediatico) per restare unita. Spettacolo avvincente. Specie se visto nei giorni della crisi in Crimea.
Giuseppe Pennisi
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