Achille Bonito Oliva ricorda Jan Hoet
Sono tante le mostre, le conferenze, le occasioni che li hanno visti fianco a fianco. Uno italiano, l'altro belga, hanno condiviso tante esperienze e un approccio, uno sguardo, un percorso comune. E anche qualche danza. Da Contemporanea a Chambre d'Amis, fino a un pensiero per i giovani curatori. Achille Bonito Oliva racconta Jan Hoet.
Il tuo percorso si è incrociato spesso con quello di Jan Hoet. Avete, infatti, collaborato in più di un’occasione. Che ricordo conservi di lui, da un punto di vista professionale e umano?
Jan Hoet è stato uno dei miei più importanti compagni di strada. Come me, era un critico d’arte totale: teorizzava le opere, curava le mostre, scriveva i libri, dirigeva i musei, faceva le conferenze e così via. Un critico d’arte globale. Da noi si è staccata una costola ed è nata la figura del curatore, che però fa “manutenzione del presente”. Jan Hoet e io apparteniamo, invece, a una famiglia di critici d’arte che non sono parenti tra loro e che condividono l’idea del metodo, del progetto, una certa lettura dell’opera e un taglio critico. Da questi elementi abbiamo sviluppato una scrittura dei testi, e anche espositiva, ad alto tasso di personalità. Le nostre mostre producono letteratura, critica della storia dell’arte. E Jan Hoet era una persona che aveva il senso della responsabilità etica del fare critica, come taglio e sguardo parziale sulla realtà. Questo sguardo si concretizzava sia nelle mostre che realizzava, sia nei suoi testi.
Lo staff dello SMAK di Ghent ha raccontato come memorabile la mostra Chambres d’Amis (1986). Qual è stato a tuo parere il momento più significativo e rivoluzionario del suo lavoro?
Devo dire che sono molto d’accordo con il punto di vista del team dello SMAK. È uscito di recente un libro, in Francia e Germania, che si intitola L’Arte delle mostre e che seleziona le esposizioni più importanti del secolo scorso. Il testo si conclude con una mostra curata da me e una da Jan Hoet. La mia è Contemporanea, 1973, nella quale si incontravano, nel Parcheggio di Villa Borghese, arte, cinema, teatro, letteratura, architettura, fotografia, musica, libri e dischi di artista, poesia visiva e concreta, informazione alternativa. Quella di Jan era proprio Chambre d’Amis. È stata una mostra davvero importante, che ha sviluppato tematiche affettive e la possibilità di entrare con l’arte in nuovi spazi espositivi.
C’è un aneddoto, qualcosa in particolare che ricordi di Jan Hoet?
Mi ricordo che piaceva moltissimo a tutti e due ballare. E c’è una bellissima fotografia che lo immortala mentre ballava un tango argentino con Marina Abramovic (Urgent dance, 1996). Con Jan c’era una condivisione culturale fortissima, la stessa attitudine a fare, progettare, realizzare, costruire… Lui apprezzava moltissimo il mio senso dell’umorismo, la mia velocità e mi ha invitato tante volte a Ghent per delle conferenze. C’era una corrispondenza: avevamo come una griffe personale, una chiara firma soggettiva, rintracciabile in maniera evidente, e sempre presente, nel nostro lavoro.
Ritrovi tracce del suo lavoro in Italia? Credi che ci siano curatori tra le nuove generazioni che sono stati influenzati dal suo percorso e dalla sua ricerca?
Ritengo che queste siano figure abbastanza irripetibili, proprio per quella totalità di interessi che le caratterizzavano. È un comportamento che i curatori e i critici non hanno più, anche se certamente c’è qualcuno che dimostra d’essere più vivace. Sono diversi gli intenti, e perciò sono diversi anche i destini. Il curatore oggi cerca la sopravvivenza, il destino dei critici come me e Jan Hoet è la vita prolungata, al di là del tragitto personale di ognuno di noi. Sicuramente credo che resteranno come modelli fondamentali molte delle mostre e dei progetti che ha realizzato. E soprattutto sono certo che ci possa essere una sorta di immortalità del critico d’arte.
Santa Nastro
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