Roma capitale /
Sei ripugnante /
Non ti sopporto più
Teatro degli Orrori, rivendico
(da Il mondo nuovo, 2012)
Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte.
Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui.
La superiorità vera è tutta qui.
Il padre di Andrea Sperelli ne
Il piacere (Gabriele D’Annunzio, 1889)
Tutta questa gente non sa fare niente
La grande bellezza
III. DANNUNZIANESIMO DI RITORNO
Fondamentalmente, Jep Gambardella è un dandy: come il barone Des Esseintes di Huysmans, come il Dorian Gray di Wilde. E, soprattutto, come l’Andrea Sperelli del Piacere (1889).
Gabriele D’Annunzio è una delle radici narrative e stilistiche (nascoste, rimosse) de La grande bellezza – un altro degli elementi oscurato continuamente dal riferimento unico a Fellini. Eppure, questo è molto strano, dal momento che La dolce vita stessa era un film dannunziano, imbevuto di dannunzianesimo e di decadentismo: era, anzi, la riproposizione in chiave dopoguerra e boom di una sensibilità tipicamente europea e italiana fin de siècle.
Al pari di Sperelli, Jep si aggira per una Roma elegante e decadente, sperperando la sua esistenza tra inviti galanti ed eventi mondani. La Capitale e i suoi monumenti, le sue strade, i suoi palazzi, i suoi salotti e le sue opere d’arte fanno da sfondo a una vita che è un eterno ritorno, la ricerca continua e continuamente frustrata di una felicità fuggevole e inafferrabile (incarnata dalla figura Elena), di un senso aristocratico della raffinatezza e del gusto: “L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di maggio. Su la Piazza Barberini, su la Piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorìo confuso e continuo, salendo alla Trinità de’ Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato”; “Egli era per così dire tutto impregnato d’arte […]. Dal padre appunto ebbe il culto delle cose d’arte, il culto spassionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizi, l’avidità del piacere. […] fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansione di quella forza era in la distruzione di un’altra forza, della forza morale che il padre stesso non aveva ritegno a reprimere”.
D’altra parte, l’aspetto ‘neodecadentista’ de La dolce vita e dell’intero approccio stilistico felliniano era stato colto acutamente da Pasolini in un lungo articolo del 1960: “Siamo dunque di fronte a un prodotto che potremmo chiamare […] neodecadentismo se la letteratura impegnata, e nella fattispecie il neorealismo cinematografico, contassero tanto da rendere vecchio, superato, il decadentismo storico, così da dover ricorrere all’ormai rituale proclitica rinnovante. […] dichiaro a tutte lettere che l’opera di Fellini segna e codifica il ritorno, energico, di un gusto e di una ideologia stilistica che hanno caratterizzato la letteratura europea del decadentismo, da Baudelaire, diciamo, alla Nouvelle Vague (che è reazionaria)” (La dolce vita: per me si tratta di un film cattolico, “Il Reporter”, 23 febbraio 1960, poi in Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. II, Mondadori 1999, pp. 2274-2275).
Questa insistenza serve anche a riflettere su quella che Giulio Bollati, ne L’Italiano, definì la ‘bolla’ dannunziana. L’immaginario collettivo italiano, fin dalle sue origini postunitarie (e, molto probabilmente, fin da secoli addietro…) ha una spiccata tendenza a costruirsi bolle finzionali in cui rinchiudersi e adagiarsi comodamente, allontanandosi dalla realtà e dallo sguardo su di essa (un processo che coincide sempre con l’affidamento a un’identità collettiva immaginaria e fabbricata altrove: il mondo fatato che è l’altra faccia della classe di Cuore, che si tramuterà decenni dopo in un’antichità di cartapesta e nello Strapaese delle olografie, ecc.): se, per dire, in Francia il naturalismo di Zola e il postnaturalismo di Maupassant e Huysmans sono sì componenti rivelatrici del contesto storico a cui appartengono, ma come componenti critiche, come funzioni perturbanti dell’intero dispositivo, qui da noi tradizionalmente l’immaginario culturale è il dispositivo. È, come osserva acutamente Bollati stesso, un “grembo materno” – ed è piuttosto difficile rintracciare una metafora più indicata a tradurre la condizione italiana nella storia culturale degli ultimi secoli: impermeabile alle influenze e agli stimoli esterni, autoconclusa. È una gigantesca nebulosa spazio-temporale, che si sorregge su alcune direttrici fondamentali, e che espelle da sé automaticamente e autoritariamente la critica, il “fuori”.
Partendo da questo punto, è possibile riconoscere tutta una serie, una sequenza di queste nebulose, di queste bolle; esaminarne cioè l’intera genealogia: “Vorremmo ora attirare l’attenzione, nella stessa linea di interesse, sulla nebulosa D’Annunzio perché nessun’altra teoria dell’epoca o somma e combinazione di teorie può competere con essa in fatto di compiutezza e di efficacia mitologico-pratica. Questi addensamenti di materiali sovrastrutturali della più varia provenienza e qualità, fusi insieme a formare costellazioni del vivere individuale e collettivo, si susseguono regolarmente a partire dall’Unità. Alla carducciana (per definirla provvisoriamente), tiene ora dietro la dannunziana, cui seguirà la fascista e, forse, il conglomerato ‘cristiano’ del secondo dopoguerra; e c’è da chiedersi se non sia da cercare in questa direzione un tipo ideologico modulare, funzionale e necessario al particolare sviluppo italiano; tipo che potremmo definire formalmente a ‘grembo materno’, per indicarne il carattere isolante, protettivo, totalizzante e, all’occorrenza, autoritario” (L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi 2011, pp. 172-173).
È possibile dunque immaginare LGB come il fulcro della nuova bolla in cui l’Italia e l’italiani stanno penetrando? Invece di uscire dal pozzo profondo in cui siamo sprofondati circa trent’anni fa, invece di costruire il nostro ‘fuori’ attuale (speculare e analogo a quello del secondo dopoguerra: e, come allora, questo fuori dovrebbe coincidere con un’identità culturale e con una narrazione collettiva radicalmente riconfigurata), in qualche modo è come se stessimo scavando all’interno di quel pozzo un ulteriore cunicolo percettivo, che ci metta al riparo dagli eventi. Più sofisticato, più raffinato e al tempo stesso più desolante del precedente: imbottito di nostalgia, di retorica autocelebrativa, di autocommiserazione e di consolazione. Foderato di autoassoluzione.
La strategia ultima è ancora e sempre quella di aggirare l’elaborazione dei traumi, l’esperienza del fallimento, per offrire a se stessi e agli altri l’ennesima rappresentazione del dolore, del lutto, della sofferenza. (Come scrive Walter Siti: “Se mio padre muore, subito divento uno spettatore di una ‘morte del padre’”.) Purtroppo, rischia di essere il contrario di ciò che servirebbe davvero in questo momento: un mutamento radicale del punto di vista sulla realtà, che metta al centro l’oscurità vissuta e non presunta.
Christian Caliandro
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