Hai appena debuttato a New York con la messa in scena di tre novelle del Decamerone. Cos’hai scoperto attraverso il capolavoro di Giovanni Boccaccio?
La principale scoperta è stata provare quanto le novelle di Boccaccio, composte nel XIV secolo e ispirate a numerose opere antecedenti, siano ancora attuali. Tra i personaggi che abbiamo portato in scena – le novelle erano, tra l’altro, le tre sulle quali Machiavelli più si basò per La Mandragola – ci sono uomini che cercano di mascherare la propria stupidità usando paroloni e facendo finta di capire tutto, giovani furbi che se ne prendono gioco circuendoli, donne che amano fedelmente e sono raggirate da uomini di pochi scrupoli e altre che si creano come possono qualche ritaglio di libertà dal marito oppressivo: un gruppo di personaggi assolutamente riconoscibile dal pubblico attuale, il quale ci ha dimostrato una calda accoglienza ridendo, sorprendendosi e vivendo queste novelle con noi.
Nel 2013 hai messo in scena La Mandragola di Niccolò Machiavelli. Come avete preparato l’allestimento?
La visione della nostra regista era molto precisa: evitare costumi, maschere d’epoca e grossi set complicati. Ci siamo ispirati alla tradizione del teatro di strada e al pluripremiato gruppo teatrale nuovayorkese Bedlam, che porta in scena spettacoli di forza epica, come Amleto di Shakespeare o Santa Giovanna di Shaw, con solo quattro attori e nessun set, nessun costume, utilizzando solamente alcuni oggetti-chiave. È interessante verificare come questo approccio riporti il focus sul testo e sull’interpretazione dell’attore, eliminando ogni “distrazione”. Così abbiamo voluto fare noi per La Mandragola, recitando con vestiti quotidiani, con solo qualche elemento di caratterizzazione dei diversi personaggi, ed interpretando l’opera di Machiavelli su un palcoscenico vuoto, usando unicamente le nostre voci e i nostri corpi come strumenti di comunicazione. È stato un esperimento riuscito, che abbiamo ripetuto anche per il Decamerone, spingendoci oltre: abbiamo recitato il testo di Boccaccio nella sua interezza, anche quando si trattava di far parlare i nostri personaggi in terza persona.
A breve lavorerai su alcune opere di Francesco Petrarca. Quale tipo di pubblico viene a vedere questo genere di proposte? Quali difficoltà e quali sorprese incontra?
Un pubblico molto vario segue le rappresentazioni della KIT (all’interno della quale operiamo come ‘YoungKIT’), che è la principale compagnia di teatro italiano a New York. Ci sono italiani espatriati, c’è l’enorme comunità italo-americana di New York e del New Jersey, che mantiene un fortissimo legame affettivo e culturale con il nostro Paese e ci tiene a patrocinare opere di questo tipo per rafforzare il proprio senso di appartenenza. Infine, ci sono tutti gli altri: amanti del teatro, di qualsiasi nazionalità, che vengono per scoprire opere nuove e nuove compagnie. Per quanto riguarda le difficoltà, direi che non è sempre facile ridare vita a questi classici in lingua inglese, perché si perde sempre qualcosa nella traduzione. È anche difficile, a volte, interessare il pubblico italo-americano ai classici, perché molti nostri autori qui non s’insegnano e non si studiano e gli spettatori sono maggiormente abituati a figure un po’ stereotipate, come l’italiano mafioso o il dongiovanni. Allo stesso tempo le sorprese sono tante e bellissime, in particolare quando scopriamo di avere dei fedelissimi sostenitori. Per esempio, dopo una replica del Decamerone sono stata avvicinata da una giovane coppia americana che mi ha raccontato di essere venuta in treno dal New Jersey dopo aver visto l’annuncio del nostro spettacolo su un giornale. Erano assolutamente estasiati, e non vedevano l’ora di sapere che cosa avevamo in progetto per il prossimo spettacolo. Sono poi dovuti scappare per non perdere l’ultimo treno: per me è stata un’enorme soddisfazione.
Sei una delle “producer” di In Scena! Italian Theater Festival NY. Quali sono i tuoi compiti?
In Scena! è l’ambiziosissimo festival di teatro italiano la cui prima edizione ha avuto luogo l’estate scorsa in tutti e cinque i distretti di New York, all’interno della manifestazione 2013 – Year of Italian Culture in the United States. Dato il successo di pubblico e di critica, quest’anno ritorneremo a giugno con un programma di spettacoli ancora più ricco e vario. I miei compiti come Producer consistono nel collaborare con Laura Caparrotti (Founder e Artistic Director del festival) per selezionare i lavori che verranno portati qui dall’Italia, scegliere le sedi per le rappresentazioni in tutti e cinque i distretti, coordinare gli artisti, il personale tecnico, gli sponsor, i proprietari delle sedi e gli ospiti: assicurarmi insomma che tutto vada per il meglio. Abbiamo iniziato da molti mesi a preparare la seconda edizione, e non vedo l’ora di condividere con il pubblico gli spettacoli italiani che saranno presentati a New York quest’anno.
Pochi mesi fa hai collaborato con il drammaturgo e regista americano Neil LaBute. Com’è sorta quella occasione?
È nata attraverso l’Accademia di recitazione che ho frequentato qui, la celebre American Academy of Dramatic Arts (dove hanno studiato Grace Kelly e Robert Redford o, in tempi più recenti, Paul Rudd e Kim Cattrall). L’Accademia ha creato un programma chiamato Main Stage Live, nell’ambito del quale famosi autori di teatro scelgono, attraverso una serie di audizioni, ex studenti dell’Accademia per interpretare le loro nuove opere, e poi lavorano direttamente con loro in un workshop che viene alla fine presentato al pubblico. Quando ho saputo che ci sarebbe stato Neil LaBute – uno dei miei autori preferiti, molto famoso sia come drammaturgo che come regista di alcuni film di successo – mi sono precipitata alle audizioni. Ho avuto la fortuna di piacergli e di essere scelta per One Day Like This.
Hai qualche consiglio da dare a chi, come te, volesse dall’Italia arrivare ai palcoscenici statunitensi?
Qui a New York, come ovunque, il mondo del teatro è saturo e molto competitivo. Allo stesso tempo, la produzione è in aumento e crea nuove opportunità. Il mio unico vero consiglio è di imparare l’inglese, il prima e il meglio possibile. Essere completamente bilingue è ciò che mi ha consentito di venire accettata in una prestigiosa Accademia di recitazione, e che mi permette ora di interpretare ruoli sia italiani che americani. Per quanto adori il lavoro che facciamo portando il teatro italiano in America, sono grata di non dovermi limitare a parti “italiane”, ma di poter anche fare audizioni per ruoli americani, il che ovviamente amplia di gran lunga il mio orizzonte, le mie possibilità.
Michele Pascarella
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