L’amarezza italiana
Un tratto tipicamente italiano. Che vedevamo sui volti dei nostri padri e dei nostri nonni. Un’espressione di profonda consapevolezza che per esempio portano con sé tutti i ritratti di Aldo Moro, forse il personaggio che di più la incarna. E oggi, dov’è finita l’amarezza?
Mia carissima Noretta, resta pure in questo momento
la mia profonda amarezza personale…
Aldo Moro, 1978
Moro e la sua vicenda sembrano generati
da una certa letteratura.
Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, 1978
Col mare /
mi sono fatto /
una bara /
di freschezza
Giuseppe Ungaretti, Universo (da Il Porto Sepolto, 1916)
Manca l’amarezza. L’amarezza italiana, il vero tratto distintivo della nostra identità culturale – che infatti abbiamo quasi completamente smarrito nell’ultimo trentennio. L’amarezza che viene dall’essere posizionati costantemente oltre (e dietro) il fallimento personale e collettivo. Dall’essere dopo la fine, e quindi realmente liberi.
L’amarezza di Borromini (non di Bernini, per esempio), di Mastroianni, di Manfredi; di De Chirico e di Savinio; di Ungaretti; di Carlo Levi e di Primo Levi; di Foscolo; di Svevo; di Slataper; di De Gasperi; di Rossellini; di Parise; di Volponi; di Petri; di Pietrangeli; di Tognazzi; di Sciascia. Di Burri e di Fontana. Di Bianciardi, Mastronardi, Parini.
Quell’amarezza che fa scrivere a Leo Longanesi, a Napoli il 1 novembre 1943: “Durante il giorno, il piccolo minuto sbriciolato povero popolo napoletano vive vendendo agli alleati vino allungato, croccanti marci, panzerotti puzzolenti, orologi di latta e penne stilografiche che non scrivono: sì, è triste tutto ciò, ma che altro può fare? Nessuno si occupa di lui, da anni, da secoli. Marcisce nei bassi, rassegnato ormai a condurre una vita clandestina e scucita, imputridito in stracci più antichi della sua miseria. Su un muro, in via del Pallonetto, è stato scritto col gesso: Il Regno di Dio non è venuto / E tutto è fenuto” (da Parliamo dell’elefante, 1947).
L’amarezza che genera il riso, che è il presupposto della nostra comicità tragica, e che non prevede di dissociare il dolore e il disagio e la critica dall’ironia feroce: “Io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l’intera vita in una stanza, in maniera che, se vi penso, mi fa raccapricciare. E tuttavia m’avvezzo a ridere, e ci riesco. E nessuno trionferà di me, finché non potrà spargermi per la campagna e divertirsi a far volare la mia cenere in aria” (Giacomo Leopardi, lettera a Pietro Brighenti, 22 giugno 1821).
L’amarezza è quella piega indefinibile della bocca che hanno – che avevano – tanti nostri politici scrittori artisti registi attori. Aldo Moro ce l’aveva, non solo nella famigerata foto dal sequestro con colletto della camicia sbottonato, ma in tutte le sue foto degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Aldo Moro è una delle incarnazioni più potenti dell’amarezza italiana, talmente radiante da ossessionarci ancora ben oltre i confini della sua scomparsa materiale: “È come se, dentro al Palazzo, tre anni dopo la pubblicazione sul ‘Corriere della Sera’ di questo articolo di Pasolini, soltanto Aldo Moro continuasse ad aggirarsi: in quelle stanze vuote, in quelle stanze già sgomberate. Già sgomberate per occuparne altre ritenute più sicure: in un nuovo e più vasto palazzo. E più sicure, s’intende, per i peggiori. ‘Il meno implicato di tutti’, dunque. In ritardo e solo: e aveva creduto di essere una guida. In ritardo e solo appunto perché ‘Il meno implicato di tutti’. E appunto perché ‘il meno implicato di tutti’ destinato a più enigmatiche e tragiche correlazioni” (Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, 1978).
Quella piega amara e consapevole, indefinibile – la stessa piega che aveva mio nonno, che ha mio padre, che ha mio zio.
L’amarezza italiana è quella che fa intravedere anche nei momenti migliori la prospettiva più che probabile del disastro, dello sfacelo, della caduta. E proprio con questa certezza intima i successi, le grandi imprese, i risultati imponenti. Perché è sempre attenta a iniettare in queste opere il senso e il succo del dissolvimento, e non si lascia mai sorprendere se le cose vanno bene – perché sa che stanno inevitabilmente per andare male.
L’amarezza italiana è un sentimento profondamente umanistico: “Limiti e proporzioni: ecco, per noi. E non ci sono narcotici, stimolanti, paradisi artificiali che possano liberarcene. Un uomo può gettare un ponte, semplificare i mezzi di comunicazione, non abolire le distanze, tanto meno una distanza umanamente inconoscibile come quella tra l’effimero e l’eterno. La nostra civiltà è fatta in questo modo. E perciò, da noi, tanto è difficile la via dell’arte, e la grandezza, quando è raggiunta, tanto contiene malinconica serenità” (Giuseppe Ungaretti, Ragioni d’una poesia).
Christian Caliandro
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