La Belle Elaine. Quando Warhol non era Warhol
Potenza o im-potenza di un’immagine? Qui i due ragazzi stanno proprio trasportando… “Un Warhol!”, diranno subito i miei intelligenti lettori. Eh no, ragazzi, avete sbagliato. I Flowers che vedete non sono di Warhol. “Ah, ma nel senso che Warhol aveva preso l’immagine dei fiori da una foto che era stata scattata da Patricia Caulfield?”. Complimenti, però no, non in quel senso…
“Allora nel senso che non sono stati materialmente realizzati da lui, ma dai suoi assistenti, che all’epoca lo aiutavano a produrre le serigrafie?”. No, non è nemmeno questo: si tratta proprio dell’opera di un altro artista, che però è identica a quella di Warhol. “Beh, ma negli Anni Ottanta tutti hanno rifatto tutto, e le gallerie da allora sono piene di ‘Not Warhol’, ‘After Duchamp’, ‘Omaggio a Picasso’ e via dicendo… Niente di meno originale della non-originalità!”. Esatto, esatto. Gli Anni Ottanta sono proprio stati l’epoca d’oro della simulazione. Il problema è che questi Flowers sono… del 1965, praticamente sei mesi dopo che Warhol aveva realizzato i propri.
Un mistero che però si spiega facilmente col nome di Elaine Sturtevant, o più brevemente Sturtevant, come l’artista, oggi ultraottantenne, ama farsi chiamare. Come molti ormai sanno, il suo lavoro artistico consiste nella “ripetizione” (più che rifacimento, citazione, appropriazione ecc.) di opere altrui. Ma è un’idea iniziata “insieme” all’arte contemporanea stessa che lei “copiava”: nella prima mostra personale del 1965, in galleria campeggiavano diversi Flowers di Warhol e una serie di altri quadri, tra cui una Flag di Jasper Johns, e inoltre Lichtenstein, Rauschenberg, Stella, Oldenburg, Segal, Rosenquist, tutti esposti poco prima. Ogni lavoro era stato realizzato dalla Sturtevant, ripetendo scrupolosamente le diverse tecniche pittoriche di ogni autore: l’encausto per Johns, i dots per Lichtenstein, il calco in gesso per Segal, e via dicendo. Per i Flowers, Sturtevant aveva addirittura usato il telaio serigrafico originale di Warhol: lei glielo aveva chiesto, e lui glielo aveva prestato. In un’intervista, interrogato sul senso dei Flowers, pare che Andy abbia mormorato: “I don’t know. Ask Elaine”.
Ciò che è meno noto è che la tiepida benevolenza con cui inizialmente i pop artisti avevano guardato al lavoro della Sturtevant si trasformò in breve tempo in aperto risentimento. Anzi, per usare le parole di Sturtevant in un’intervista a Peter Halley, verso la sua opera cominciò a montare una “horrendous hostility” da parte di tutto il mondo dell’arte, il che la costrinse a interrompere l’attività per oltre un decennio, fino appunto agli Anni Ottanta, in cui il suo lavoro fu (superficialmente) assimilato al simulazionismo postmoderno. Ma chiaramente non ne fa parte: lungi dall’essere un elegante gioco di citazioni a distanza (storica e mentale), l’operazione della Sturtevant è piuttosto una “seconda volta” dell’opera, un disturbante sdoppiamento dello sguardo che ci mette sull’avviso e ci spinge alla fatale domanda su “cosa stiamo veramente guardando?”.
Quando guardiamo un Flower di Warhol possiamo pensare al consumo delle immagini, alla cultura di massa, alla perdita di senso della Natura ecc. ecc., ma quando guardiamo un Flower (identico) e tuttavia “sappiamo” che non è di Warhol , cosa stiamo effettivamente guardando, se non la “differenza” come tale, l’impossibile scarto, ossia il “senso” di una cosa simile o, in altre parole, il senso dell’arte-in-quanto-tale? È per questo che, col tempo, gli interessi della Sturtevant sono divenuti sempre più filosofici (ha anche “ripetuto” la serie televisiva Abécedaire di Deleuze) e ha sempre più insistito sul fatto che la vera funzione delle sue opere non consiste in un piacere visivo, ma nello “shifting mental structures”, nello scardinare le nostre strutture mentali.
In un mondo in cui trasgressioni e perversioni sono moneta artistica corrente, e bene accetta, dovremmo essere grati a quegli artisti che sono riusciti a “provocare” davvero il sistema dell’arte; ovvero, per citare un passo da Meno di Niente (Ponte alle Grazie, 2013), l’ultima fatica di Slavoj Zizek, inaspettatamente adeguata a questo contesto: “Cos’è mai l’effetto disturbante” di una perversione banalmente sessuale-sociale “in cui i membri di una famiglia si defecano in bocca l’un l’altro in confronto a quello provocato da un autentico rovesciamento dialettico?”.
Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #17
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