“The walls between art and engineering exist only in our minds”, dice in uno spot della BMW Theo Jansen, padre putativo delle sculture cinetiche Strandbeest. La storia insegna che abbattere muri è sempre stato un atto rivoluzionario, ma se la recentissima ossessione per la condivisione ha già insegnato qualcosa, cultura dell’open source e divulgazione tecnologica potrebbero presto ambire a gesti così epici.
A mettere insieme codice e bellezza ci ha infatti pensato il protagonista – tutto italiano – della rivoluzione dell’Internet delle cose, Arduino. Perché è naturalmente di “lui” che stiamo parlando: vede la luce nel 2005 tra le mura dell’Interaction Design Institute di Ivrea, spin off di Telecom nato dalle ceneri della Olivetti. Qui un docente allora sconosciuto, Massimo Banzi, progetta una nuova piattaforma hardware e software con l’obiettivo di facilitare i suoi studenti nella realizzazione di piccoli progetti di elettronica: la programmazione del microcontrollore, vero e proprio cervello che analizza e processa le informazioni che i sensori captano dall’ambiente esterno, diventa per la prima volta intuitiva e semanticamente vicina al nostro linguaggio naturale. Il suo nome? Italicamente, ha qualcosa della cultura del bar: deriva dall’omonimo caffè di Ivrea dove il team di sviluppo – oltre a Banzi, David Cuartielles, Tom Igoe, Gianluca Martino e Davide Mellissi – si ritrovava occasionalmente.
Dal Canavese al resto del mondo il passo è breve. L’effettiva accessibilità della programmazione, l’utilizzo di una licenza Creative Commons di tipo “Attribution Share Alike”, il basso costo della scheda e il rapido costituirsi di una community mondiale hanno di fatto trasformato Arduino in uno standard internazionale, oramai declinato tra venti schede disponibili (fino all’ultima Galileo realizzata in collaborazione con Intel) sviluppate per andare incontro a campi di applicazione specifici. A proliferare, però, sono stati soprattutto i prototipi che ormai si contano in migliaia di esemplari: dall’abbigliamento ai gadget, fino alle installazioni multimediali, non c’è settore che sia stato risparmiato dall’investitura DIY di questo protagonista intelligente del nuovo bricolage.
Il bello, però, viene adesso. Perché se programmare il software può in fondo rivelarsi un gioco da ragazzi, più difficile è trasformare l’interazione in qualcosa di più di un semplice esercizio geek: luci interattive per l’albero di Natale o termometri per misurare l’umidità delle piante, niente di tutto questo è destinato a cambiare il nostro orizzonte quotidiano, né a trasformarsi in un potenziale economico con vocazione d’impresa. Andare oltre il solipsistico virtuosismo da smanettoni, però, si può, e sono tre i settori che più di altri ci hanno regalato applicazioni promettenti.
Cominciamo dal mondo della tecnologia, e in particolare da quello delle stampanti 3d: sono proprio quelle più celebri, come Rep Rap e Makerbot, a utilizzare Arduino. Ed è ancora un altro campo tipicamente makers a farla da padrone: in ArduPilot, come dice il nome stesso, è Arduino che controlla il volo dei droni domestici. Molti poi sono i progetti in divenire che stanno cercando finanziamento. Li scopriamo su Kickstarter, dove abbiamo trovato Lenzhound, un sistema di controllo remoto per le lenti delle telecamere.
Cambiando orizzonte, è il campo delle wearable technologies che si sta rivelando particolarmente fertile. Qui la scheda Lilypad, la più “femminile” nella famiglia Arduino, si innesta tra le maglie del tessuto per regalarci un mondo fatto di LED che si accendono e di colori cangianti che cambiano al variare del nostro umore. Senza precludere soluzioni di manifesta utilità: l’italianissima Plug’n’Wear, leader negli smart fabrics con applicazioni nel campo medicale e nei tessuti tecnici, ha progettato il Wearable Technology Kit in vendita sullo store online di Arduino. Grazie ai suoi sensori e attuatori indossabili, lo studio di soluzioni personalizzate nel campo design interattivo indossabile diventa alla portata di (quasi) tutti.
Ma l’ambito che forse più degli altri ha da guadagnare dall’applicazione della piattaforma è proprio quello dell’arte contemporanea. Ne sa qualcosa l’artista Julian Koschwitz: la sua opera On Journalism #2, Typewriter filtra dalla Rete informazioni su giornalisti oggetto di aggressione nel mondo, e grazie ad Arduino ne rielabora i dati stampandoli, alla maniera di nuove storie generative, su un rullo di carta.
E il design? Paradossale pensare che sia ancora alla ricerca delle sue potenzialità responsive. A volte, però, è riuscito a trovare la sua strada: ad esempio nei progetti interattivi di Studio Habit(s), che ha democraticamente rilasciato le istruzioni la costruzione della propria lampada Tickerkit, una veste di legno e luce per un cervello comandato da Arduino.
Giulia Zappa
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #17
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